I preti: da guardiani dei granai a compagni di viaggio
Sempre più frequentemente il ruolo dell’«uomo di Dio», ossia del tramite terreno con il divino, riempie i media, smentendo così quanti vedevano il tramonto di questa figura, scalzata da astrologi, strizzacervelli, maestri di pensiero in generale. I «preti», a tutte le latitudini, orientano le masse, sono soggetti politici veri e propri, guidano, direttamente e no, gli Stati. Da noi – purtroppo per alcuni o per fortuna per altri – fanno ancora parte della storia umana. Ma in che modo usano questo spazio: come guardiani dei granai o come compagni di viaggio?
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L’accostamento granai/templi può sembrare provocatorio ma ha un suo fondamento storico: allude alla dimensione economica (non certo l’unica) e, dunque, sociale che ha accompagnato l’elaborazione della figura di questo leader spirituale.
La produttività della terra è un segno importante dell’intervento del «divino» e i frutti della natura, combinati con lo sforzo e l’intelligenza dell’uomo, sono meritevoli di attenzione e di salvaguardia da parte di personale «qualificato». La difficoltà di ottenere quegli agognati frutti rende necessario attivare tutte le possibili mediazioni con forze sentite come occulte e fatali: bisogna tenere lontano il male, ovvero ciò che improvvisamente può sottrarre quanto necessario per vivere.
La figura del sacerdote come guardiano dei raccolti, che chiede ed ottiene protezione, si arricchisce, via via, di altri connotati che lo fanno parte sempre più integrante della storia umana: condottiero, sciamano, aruspice, guaritore, capopopolo, protettore, scudo contro le vendette…
Cristo irrompe e ribalta stili sedimentati, in primo luogo superando la logica della casta. Il Nuovo Testamento è testimonianza continua del sovvertimento di un sacerdozio di maniera, erede di una tradizione di stabilità, fondata sul privilegio del gruppo eletto.
Il «fuori i mercanti dal tempio!», con il rovesciamento dei banchi di cambiavalute (Mt 21,12), non è l’urlo di un isterico o il gesto di uno squilibrato, ma il segnale dirompente con cui si vuole porre fine ad un certo modo di intendere il luogo sacrificale e la funzione connessa, subalterni ad interessi che nulla hanno a che fare con il vero culto interiore. Un messaggio ripetuto anche con la samaritana (Gv, 4,24).
Dopo Cristo, il sacerdote non è più il garante dell’ordine costituito, della forza economica o di un assetto tribale o militare che ha il sopravvento in un dato momento storico. Tanto è vero che nella cosiddetta «missione» (Mc, 6,7) Gesù non crea un’istituzione ma un semplice e del tutto a-rituale andare a coppie. Ciò pare un invito al dialogo con l’esterno. Cambia il modo di stare. Viene bandito l’assetto di gruppo, fatto di grandi numeri e basato su riconoscimenti o privilegi. Non c’è l’aspettativa di un mondo che va in direzione dei discepoli, ma, al contrario, sono questi che si muovono fra la gente, con la sola forza del messaggio e la capacità di un ascolto qualificato.
La figura del prete, almeno in ambito cattolico, ha subìto negli ultimi decenni vigorose spallate, specie se comparata a quella voluta dal Concilio di Trento.
Allora, nel pieno del cinquecento squassato dalla riforma luterana, l’abito, la tonsura, la lingua, le devozioni vennero, almeno in parte, riconfigurate per delineare un modello di sacerdozio fondato su costumi indiscutibili e su un elevato grado di preparazione culturale; le rinunce (come quella al matrimonio) erano colmate da un ruolo sociale di rilievo e dalla possibilità, anche per chi proveniva da classi non agiate, di accedere ad un tenore di vita non stentato e anche ai posti di comando. I resti di questa aureola di dignità sopravvivono nella devozione e nel rispetto che ancora oggi, in certe parti d’Italia, la gente nutre per il prete.
La rivoluzione francese contribuì a demolire un tale assetto. Napoleone non mancherà di sottolineare, da par suo, le novità rivoluzionarie arrivando, tra l’altro, ad affermare: «[...] la sacra unzione non solleva, purtroppo, ad una sfera superiore, non affranca dalle debolezze terrene, dalle azioni basse e vili, e nemmeno dalle turpitudini [...]». Una smitizzazione che va al di là delle parole.
Qui da noi, nei tempi recenti, che il rapporto prete-storia stesse cambiando è stato segnalato anche da avvenimenti di portata certamente meno rilevante e forse anche senza l’intento specifico di volerlo fare. Ci riferiamo alla sensibilità del popolo terra-terra dell’immediato dopoguerra che, fra le altre realtà da ripuntualizzare, incluse anche quella del rapporto con i suoi preti. Uno che ben riuscì a raccogliere questa sensibilità popolare fu Giovanni Guareschi con la creazione del suo famoso personaggio Don Camillo. Se non ci lasciamo distrarre dalle riduzioni cinematografiche del personaggio, vediamo che Guareschi nei suoi scritti riuscì a cogliere il passaggio dall’uomo di Dio ancora nel suo ruolo «tridentino», a quello del prete uno-come-gli-altri e tra-gli-altri: un prete che usa il linguaggio del popolo (ad esempio, sa usare le mani e non si sottrae all’approccio fisico), ma che, con altrettanta spontaneità, si misura con il Crocefisso in un colloquio fatto di incursioni empatiche nella vita d’ogni giorno. Un prete che si gioca nelle relazioni, in un dialogo a viso aperto anche con l’avversario, che tale è solo per modo di dire perché con lui accomunato nel tentativo di rispondere ai bisogni della gente e senza il quale anche il proprio servizio verrebbe impoverito. Un prete non già anti-tridentino ma post-tridentino: talare e pugilato, processioni e frequentazione dei bar del paese, politica con la gente e latinorum.
All’indomani della seconda guerra mondiale, l’autore pone, anche se non in modo diretto e con accorgimenti letterari forse un po’ troppo calcati, la questione della revisione dello status del prete e dunque la questione della sua formazione. Le versioni cinematografiche di don Camillo non rispecchiano l’intuizione di Guareschi e la questione che egli pone, calcando troppo sul lato comico del personaggio. I testi, invece, mantengono intatta l’intuizione di chi vede il sacerdote uomo che dialoga con Dio e, in pari tempo, con i suoi simili (e avversari) utilizzando i luoghi, gli strumenti, le situazioni, gli eventi propri della ferialità umana. Un mediatore attivo, adulto fra i suoi pari. Una figura che non si ritaglia un abito né lo indossa come scudo, ma che abita nel suo tempo con consapevolezza autorevole; mai su di un piedistallo. Un prete che non avverte lo scarto fra il dialogare con Dio e stare nella storia. Che non fa la guardia al suo granaio assediato ma vi estrae risorse per stare con la sua gente.
L’intreccio tra la dimensione più strettamente spirituale e quella del confronto con una realtà così dinamica quale è quella attuale, appare ancora poco valorizzato nella fase della preparazione al sacerdozio, a tutto favore della rappresentazione di un modello di prete che si vorrebbe in gran parte ancora immutato, rappresentato da una sorta di stampo rassicurante nel quale entra chi bussa alle porte dei seminari.
Avere ed essere guardiani dei granai esercita ancora un certo fascino, a tutto favore di un dialogo con il Crocifisso che scivolando via dalla storia scade ad intimismo.
Questo fascino non dice un ritorno al modello tridentino perché quel modello aveva l’intenzione di essere una risposta adeguata all’aria del tempo. Non dice neanche salvaguardia della dignità del sacerdozio. Si tratta più pedissequamente di un tentativo – come diceva Mussolini all’epoca dell’impero – di «assicurarsi un posto al sole» in tempi, come quelli attuali, che non sembrano molto riscaldare la figura del prete. Dietro presunte difese dell’ortodossia e fedeltà alla tradizione si nasconde la preoccupazione, di stampo tipicamente narcisista, di sapere e volere che l’esterno ci confermi la legittimità e dignità del nostro posto.
Una pretesa un po’ strana: che legittimità e collocazione può dare al prete un mondo «disordinato» quale è quello in cui ci troviamo? Oltre, ovviamente, all’ordinazione sacramentale, che «ordine» può rappresentare, nel contesto sociale, il prete? Le figure che facevano da coordinate nei nostri paesi (maresciallo, farmacista, sindaco, parroco) sono tramontate da un pezzo. Nelle campagne non c’è bisogno di un ministro di culto che guidi quelle che venivano chiamate «rogazioni»: per migliorare la produttività basta un’assennata distribuzione delle risorse idriche. Inoltre il seme del dubbio, tema filosofico alto ma anche così quotidiano, non può accogliere con devozione e rispetto i valori eterni che il prete deve presentare e vivere.
In un ambito che si vorrebbe formativo, si registra scarsa attenzione alla presenza e influenza della motivazione (inespressa ma impellente) di «riempire» i posti vacanti e di «trovare un posto» per sé nella vita. Ma quale posto offre la vita di oggi se non quello della instabilità?
Ma se non si è capaci di essere compagni di viaggio (vedi la difficoltà dei preti giovani non solo a dialogare, ma ad accorgersi dei giovani della loro stessa età, ma lontani dalla chiesa), la tentazione, figlia anche della solitudine, è costruirsi ex post un proprio posto al sole, visto che quello prefigurato negli anni della formazione del seminario non è all’orizzonte.
E qui la fantasia abbonda. C’è chi elabora un ruolo primaziale, per parlare ex cathedra, forte di una robusta preparazione teorica che porta però al rifiuto della realtà, sentita come misera o aggressiva. C’è poi chi elabora il modello dell’eversivo che rompe con la comunità in cui è inserito di volta in volta, addebitando a questa il senso di frustrazione per esser stato «gabbato» e s’incammina verso scelte che vanno nella direzione del «bastian contrario», ammantate peraltro di «profetismo». Anche il sognatore devoto è una delle reazioni allo scollamento tra aspettative e risposte della realtà, atteggiamento che poco ha dell’incarnazione cristiana, ma che si lega alla precettistica, alla ripetizione di riti ritenuti importanti e comunque più rassicuranti delle relazioni interpersonali. Sempre a proposito di posto da trovare, c’é chi è più fortunato, perché ha alle spalle una comunità o un movimento che gli assicura le necessarie coordinate che, a volte, si trasformano in vere e proprie stampelle. E così via…
Varianti infinite della stessa e a-storica ricerca del proprio posto anziché della più attuale necessità di saper estrarre dal proprio granaio le forze per essere compagni di viaggio.
E domani? «Ora che sono nel mondo, che faccio, chi sono?». Schierarsi dalla parte del granello di senapa o inserirsi negli snodi politici che contano, cercare ed avere visibilità, cavalcare le proteste avanguardiste o farsi paladini di un ordine da riconquistare...?
Forse, è meglio cambiare questa domanda decisamente narcisista in una più oblativa: «Come posso accostarmi al mondo per trasmettere, con trasparenza, il messaggio di Gesù?». Oggi, il punto non è trovare una propria collocazione o, per dirla in modo più raffinato, discutere sulla identità del prete.
Il discorso va direttamente alla capacità di discernimento, frutto di un allenamento e di una preparazione non episodica, ma diretta alla formazione di coscienze che siano capaci di scegliere con maturità in quanto orientate al bene, ai valori, rimanendo in quella che abbiano chiamato instabilità, elemento che sembra connotare la nostra epoca. Come a Emmaus: «conversavano di tutto quello che era accaduto» (Lc, 24,14).