Aberrazioni da evitare
Alessandro Manenti
Tredimensioni 1(2004)1, 18-25
Vedere il difetto in interventi educativi scriteriati è da tutti (Chi non è d’accordo nel definire stolto il padre che violenta la figlia?). Altrettanto facile è cogliere la bontà in interventi educativi saggi (chi non è d’accordo nel definire buon educatore don Bosco?). Meno immediato è individuare la dabbenaggine di un fare educativo che, all’apparenza, è buono e giustificabile da mille ragioni strategiche e spirituali.
Come è possibile intravedere ancora segni di trascendenza in un’esistenza sconsiderata e, viceversa, segni di egocentrismo in azioni di santità, così il bravo educatore dovrebbe saper cogliere in quello che fa e dice un significato altro rispetto a quello che si muove in primo piano. Altro non solo perché più profondo (ogni intervento educativo supera sempre se stesso lasciando un solco più profondo di quello inteso dall’educatore); altro, perché di altra natura, contraria alla prima, dall’effetto boomerang. Non basta cioè controllare se educo bene o male ma anche chiedersi se il bene al quale educo è un bene reale o apparente. Se non lo si fa, a fin di bene si compiono aberrazioni imperdonabili.
Non parliamo dunque delle aberrazioni che finiscono sui giornali: preti pedofili, import di ragazze indiane per riempire le nostre case in via di estinzione, spaccio della religione a fini di plagio… Parliamo delle aberrazioni sotterranee, dall’inizio di bene, addirittura giustificabili. Ma che uccidono quanto quelle palesi. Non subito però, ma con lunga e lenta agonia. Dimenticanze, sviste, errori non colpevoli, facilonerie, rette intenzioni, complicità sornione che non annullano l’impatto del vangelo sulla vita della persona, ma lo umiliano. Non portano immediatamente su una brutta via, ma solo con il tempo tale si mostrerà. Queste sono aberrazioni più aberranti di quelle esplicite, perché innescano un processo di crescita apparente che della vita cristiana rispetta il guscio ma la svuota di vigore. Ci limitiamo ad alcuni esempi presi dalla formazione seminaristica. Non per criticare ma per affinare l’attenzione dell’educatore.
Nel discernimento iniziale
• Ragazzo ventisettenne in ricerca vocazionale da due anni, ancora nel dubbio se farsi prete oppure no. Consiglio: “non sei ancora sicuro della vocazione? Intanto inizia a frequentare la teologia da esterno e poi si vedrà”. Il consiglio sembra saggio: nessuna scelta preliminare ha ancora la consistenza per dirsi definitiva. Ma è assurdo perché la scelta preliminare vocazionale deve già contenere un orientamento e una tensione positiva verso il suo compimento, se ci sarà. Ciò non è garantito dal “prova a vedere se…” (che è ben diverso dal “vieni e vedi” evangelico). Un consiglio così ufficializza uno stato di perenne indecisione. L’assenza dell’osare in partenza, rischiare “in Suo nome” (di Dio, non di quello del rettore!), della prospettiva di comperare e semmai scartare dopo, anziché ossessivamente tastare con la riserva se poi comperare o no, fanno di quell’anno di teologia uno sfogliare la margherita che vede il ragazzo a fine d’anno ancora al punto di partenza. Il primo anno di teologia non è la ricerca generica del progetto vocazionale. E’ già una verifica dei segni oggettivi di un effettivo orientamento al sacerdozio. Sposata inconsciamente la logica della sperimentazione, perché , allora, ce la prendiamo tanto con i fidanzati che “intanto convivono, poi si vedrà”. Se, con il tempo, questo ragazzo si abitua ad uno stile ossessivo di vita non dobbiamo meravigliarci. Lo abbiamo introdotto noi a sentire con un dito se l’acqua è calda prima di buttarsi. A volte si consiglia perfino di affrontare con la tecnica del “prova e poi si vedrà” il dubbio se fare o no domanda di ammissione agli ordini sacri.
• Inizio delle lezioni di teologia: 2 Ottobre. Metà settembre: nessun nuovo ingresso all’orizzonte. 15 Ottobre: il rettore presenta due nuovi ragazzi, entrati da appena due giorni in seminario e da lui conosciuti solo 15 giorni prima (è successo che il rettore non conoscesse neanche il cognome di quegli sprovveduti). Speranza recondita che fugasse dubbi di aberrazione in atto: forse, quei due, sono stati seguiti da un direttore spirituale che aveva buone ragioni per tenere segreta la cosa fino all’ultimo. Chiedo se per caso si sono confrontati con qualcuno sulla scelta. Risposta: sì, con il direttore spirituale che –meraviglia delle meraviglie- dicono essere il rettore conosciuto, appunto, 15 giorni prima. Il messaggio silenzioso (ma non troppo) dato a questi ragazzi è: il treno passa quando tu vai alla stazione. Quattro o cinque messaggi di questo genere (non imprevedibili visto che i due sono i soli a preservare il seminario dall’estinzione) e avremo fatto due preti che arrivano sempre in ritardo: non per infrazione del galateo ma per appresa (dal seminario!) consapevolezza che nulla ha il potere di legarci al palo.
Proviamo ad immaginare che i due messaggi educativi riguardino lo stesso ragazzo. Iniziato alla mentalità della prova e al principio di flessibilità (il tutto intellettualizzato sotto l’egida della gradualità della legge), quando quel ragazzo si troverà di fronte alle esigenze di totalità e perennità della sua scelta proverà inquietudine. Non quella che ti apre alla meraviglia estatica di fronte al mistero ma quella che ti fa sentire paura e ti porta ad attivare meccanismi di autoprotezione. Se in quel momento l’educatore continua con la tecnica della prova e dell’orario su misura il gioco è fatto. Avremo un prete prudente (=eterno sperimentatore), con tanti impegni (=sempre svincolato), capace di organizzarsi (= farsi la vita su misura sua), che sa parlare (=usa paroloni che mediano il nulla). Della buona superficie tutti vedono. Delle apparenze di bene, nessuno. Abbiamo fatto un bravo prete. Peccato che non conosca il brivido! Ma forse è meglio così perché come diceva don Abbondio del cardinale Borromeo “oh che sant’uomo! Ma che tormento!”.
Nell’iter formativo personale o comunitario
• Se passiamo al versante spirituale non c’è da stupirsi di meno. Ammesso che il seminarista abbia un direttore spirituale (cosa da dimostrare), ci si accorge che la direzione spirituale è in realtà un incontro veloce ogni due o tre mesi dal contenuto generico “e allora come va?”. Senza collegare l’incontro di oggi con quello di ieri e di domani. Dove eravamo rimasti, dove siamo arrivati? Quale obiettivo vogliamo raggiungere? Si conclude invece con un vago “e allora ci sentiamo”, oppure con la confessione che non è come dice il rito “incominciare a pensare, a giudicare e a riordinare la propria vita, mossi dalla santità e dalla bontà di Dio” (Praenotanda 6a) ma un più generico lavacro senza conseguenze (“beh!, orsù! Cerca di fare a modo!”). Il Signore disse a Ezechiele (37,1-14) “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere? Annunzia loro: ossa inaridite, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne. E io sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato”. La direzione spirituale, ben lungi dall’essere pia conversazione, si mette in questa linea di attivazione dinamica e ricomposizione delle forze realmente presenti nel soggetto il cui esito fa rumore e mette in moto.
• Tema molto gettonato: maturità affettiva. Svolgimento: la affettività del prete si fa dono e trova il suo pieno compimento nell’amore oblativo che nulla trattiene per sé. Amen!
E in questo sproloquio, la vita concreta dove è? E l’aggancio fra questo auspicabile esito e il punto in cui si trovano i seminaristi? Addio bei tempi nei quali i nostri giovani rampolli facevano le 6 domeniche di S. Luigi Gonzaga a tutela della loro purezza. Oggi anche loro provengono da famiglie problematiche o con alle spalle una vita sessuale non proprio secondo i canoni cattolici e sanno che basta un clic sul computer per fare sesso virtuale.
Della maturità affettiva si salta il tema del sesso: non quello che contribuisce a fare della vita una sinfonia spirituale a più mani ma quello istintuale che funziona con leggi autonome, quello che fa sì che il maschio anche se prete rimane sempre un maschio attratto da una femmina, quello che produce pensieri impuri che sempre rimarranno e guai se non fosse così. Il sesso non è qualcosa che o non dà più fastidio o se si sente è porcheria. Come è possibile vivere il celibato se si rimane intrappolati nella pericolosa scissione fra attrazione per il valore e richiamo degli istinti? La spiegazione del senso del celibato ci vuole, ma senza capire dove si trova la persona concreta, non regge alla prova della realtà. E’ triste e ingiusto sentir dire “ho lasciato il seminario perché mi sono innamorato di una ragazza”.
Nell’esordio pastorale
• A un mese dall’ordinazione, Francesco viene nominato parroco di tre piccole parrocchie confinanti. Una di pianura, una di collina e l’altra di mezza montagna. Tre canoniche ristrutturate dai suoi predecessori morti e finemente ammobiliate con quadri e mobili antichi, sottratti per sicurezza alle rispettive sagrestie e più sicuri in casa che in chiesa. Per mandare pari i parrocchiani Francesco aveva scelto di abitare d’inverno nella casa di pianura, d’estate in quella di montagna e in primavera nell’altra. Un giorno lo andai a trovare e si scusò del giardino in disordine: “appena ho un attimo di tempo, metto sotto i miei operai a risistemare tutto”.
Il giorno dopo incontro Ciro. Anche lui fresco di studi, aveva appena trovato il suo primo impiego provvisorio, tramite un’agenzia di lavoro interinale, dall’altra parte dell’Italia. Con la sua valigia si trasferisce, lo stipendio gli permette solo un posto letto a 450 Euro al mese in un appartamento di 70 mq occupato anche da altri 6 ragazzi/e, in una stanza da condividere con un altro che pretendeva campo libero nei week-end perché si doveva incontrare con la sua ragazza. Anche Ciro mi disse “appena ho un attimo di tempo, mi metto sotto a fare tutte le agenzie, se no rimango sempre nel provvisorio”.
Francesco e Ciro: stessa età, stessa situazione di primo impiego, ma dalle valenze formative ben diverse. E’ il problema dei ruoli. E del messaggio ad essi correlato. Non quello del decreto vescovile di nomina ma quello che ‘cola’ direttamente dalla situazione in cui ci si ritrova ad essere. Tante cose, tanti mobili, tanti quadri mette inevitabilmente Francesco in una situazione di potere, ben espressa nel suo dire “metto sotto i miei operai”. Il dover gestire tante risorse (5 messe, tre consigli pastorali, tre catechesi…) lo fa inevitabilmente diventare un manager: il suo dire “appena ho un attimo di tempo” è paragonabile a quello del manager che, occupandosi della produzione, non può perdere tempo ad ascoltare i suoi operai. Le stesse parole le usa Ciro, ma questa volta denunciano il suo stato di precarietà e l’urgenza di concentrare le energie (sue, non quelle dei suoi operai) per non fare passi falsi che lo comprometterebbero come persona. “I miei operai” dice il primo. “Le mie forze” dice il secondo. Discorso di comando il primo, discorso di coinvolgimento personale il secondo.
Trovarsi “qui” piuttosto che “là” non è irrilevante ai fini della effettiva capacità di maturare o regredire nella propria vocazione. Il ruolo nei suoi dati oggettivi, per quello che è, e non solo per come viene interpretato dal soggetto, ha il potere di forgiare la sensibilità interiore e il comportamento, il modo di sentire e quindi di fare. Questa differenza di identità risultante, fra Francesco e Ciro, si rendeva visibile nel semplice loro stare a tavola: don Francesco afferrava la bottiglia del vino con il cipiglio del pilota al volante della sua Ferrari e riempiva solo il suo bicchiere, Ciro serviva prima gli altri e poi se stesso.
Queste sviste non si vedono, non fanno rumore, non reclamano di essere corrette, si adattano ad una formazione del resto buona. Anzi la soluzione che prospettano può apparire come la migliore possibile. L’inconveniente è che creano dei cunicoli nel cuore che rallentano il cammino o innescano una regressione che solo nel tempo apparirà. Ma quando apparirà, nessuno ricorderà più le premesse gettate anni prima e dello sventurato non resterà che avere commiserazione.
Perché aberrazioni?
Perché sfregiano la sublimità della vocazione. Che il ragazzo in formazione tenti inconsciamente di “fare la tara” è comprensibile e prevedibile. Di fronte alla sublimità (non alla difficoltà!) della proposta cristiana, ogni soggettività, anche la più disponibile, ha un’immediata reazione di paura perché è ontologicamente inadeguata a contenerla e l’io inconsciamente tenta di ricondurre a sé quell’appello anziché adeguarsi, lui, ad esso. Se così non fosse, non ci sarebbe bisogno di formazione e la stessa grazia divina sarebbe un sovrappiù inutile per un’impresa a misura d’uomo.
Ma che questo svilimento entri a far parte della proposta stessa non è possibile perché la svilisce nella sua qualità essenziale. Così facendo, non si tratta più di comprendere l’ambivalenza del cuore umano di fronte alla proposta, ma di ridurre il vigore che la contraddistingue. E’ un riduzionismo a livello della oggettività e non una comprensione della soggettività ricevente.
Nei nostri esempi: impostare l’inizio del cammino sulla mentalità della prova e della flessibilità, fare della direzione spirituale una conversazione più o meno intima, proclamare affermazioni di principio senza contestualizzarle nel tessuto vivo della situazione, lasciarsi modellare dal ruolo… costituiscono un degrado perché relegano nello sfondo l’essenza sublime della vocazione, presupposta ma non condizionante. C’è differenza fra la ricerca della verità oggettiva e soggettiva (tipica dell’agire formativo) e la semplice conversazione (tipica dell’agire conviviale). Nel primo caso ci si accorda in anticipo si ciò che si vuole ricercare, mentre chi conversa lascia il tema e l’esito all’improvvisazione. Se la formazione si trasforma in convivialità, diventa inutile chiedersi se Cristo è modello di vita o un poeta.
Dietro alle crisi dei preti non è difficile individuare, come origine remota, la mancata presa in considerazione del nucleo sublime della vocazione, per cui alle prime difficoltà serie ci sente perduti non perché si è perso il piacere di essere preti ma perché non lo si è mai sperimentato.
Aberrazioni dunque per negligenza di spiritualità e non di psicologia. Al limite, nella formazione si possono anche tralasciare le competenze psicologiche, ma se si indebolisce in partenza lo spessore teologico/spirituale che quelle competenze volevano far risaltare è davvero una aberrazione. Quando è così, è meglio lasciar perdere anche la psicologia.
Lo sfregio alla persona
Il terremoto preti pedofili ci ha ricordato che il problema pedofilia non è tanto di sessualità né di controllo degli impulsi, ma di fissazione evolutiva. Molti studi concordano nel dire che il pedofilo ha un arresto evolutivo, per cui è rimasto alla stessa età psicologica della sua vittima. Di solito, non è eccitato da un bambino in particolare ma dal genere infantile, dal profumo e odore di ogni bambino. Identificandosi con l’infanzia, soddisfa il suo bisogno di controllo usando quella come oggetto manipolatorio. Ciò (anche) perché certi aspetti della personalità del pedofilo sono rimasti congelati (soprattutto quelli relativi alla stima di sé, potere, armonia fra autonomia e dipendenza). Per quelli l’orologio si è fermato. Ibernati anche per anni, emergono più avanti. Ma dato che nel frattempo non hanno subìto lo sviluppo dovuto, emergono in forma oltre che infantile anche perversa e condizionano negativamente la gestione dei nuovi compiti evolutivi che vengono affrontati in modo patologico.
La pedofilia può essere un caso estremo della possibile dinamica innescata dalle aberrazioni educative. Ciò che prima non è stato affrontato con successo appare dopo in forma patologica e può compromettere lo svolgimento di ciò che avverrà dopo. Negli anni di seminario si tralasciano aspetti importanti del tessuto umano sui quali si innesta il seme della vocazione, vuoi per problemi inerenti alla personalità del formatore, vuoi per falsi motivi di comprensione, pazienza, rispetto dei ritmi di crescita… Questi aspetti, scissi dall’iter formativo, rimangono congelati e perciò non mandano subito segnali di protesta. Anzi, tutto procede bene perché il formatore e l’interessato si astengono dall’entrare in tematiche che farebbero saltare questo benessere apparente (quanti rettori da battistrada si trasformano in pacificatori e appena eletti cadono nella sindrome del mammismo!) Trascorsi gli anni di formazione, l’impatto con la realtà pastorale (non sempre alleata della crescita spirituale del prete) trova quel soggetto sereno (= congelato) inadeguato e quegli infantilismi prorompono in modo eclatante. Ciò che all’inizio poteva essere integrato abbastanza facilmente, oggi si presenta incancrenito e ci vuole una lunga opera di scrostamento dagli esiti incerti. Davvero, all’inizio, si erano amate e rispettate le persone? Gli effetti direbbero che si erano elegantemente disprezzate, viste come si voleva che fossero e non come avrebbero potuto fiorire. Questo disprezzo è dimostrato dal fatto che ciò che all’inizio della formazione era considerato irrilevante per l’assunzione dell’impegno, è poi considerato determinante per la dispensa dallo stesso. Non si sono amate le persone né prima (“non importa”, “va avanti”, “parliamo d’altro”, “la situazione impone che”…) né dopo (“ma come?”, “chi lo avrebbe mai detto?”, “non ci sono più le condizioni”…). E’ la cosiddetta sindrome di Pilato: usato Gesù finché serve, dopo infastidisce.
Tredimensioni 1(2004)1, 18-25
Vedere il difetto in interventi educativi scriteriati è da tutti (Chi non è d’accordo nel definire stolto il padre che violenta la figlia?). Altrettanto facile è cogliere la bontà in interventi educativi saggi (chi non è d’accordo nel definire buon educatore don Bosco?). Meno immediato è individuare la dabbenaggine di un fare educativo che, all’apparenza, è buono e giustificabile da mille ragioni strategiche e spirituali.
Come è possibile intravedere ancora segni di trascendenza in un’esistenza sconsiderata e, viceversa, segni di egocentrismo in azioni di santità, così il bravo educatore dovrebbe saper cogliere in quello che fa e dice un significato altro rispetto a quello che si muove in primo piano. Altro non solo perché più profondo (ogni intervento educativo supera sempre se stesso lasciando un solco più profondo di quello inteso dall’educatore); altro, perché di altra natura, contraria alla prima, dall’effetto boomerang. Non basta cioè controllare se educo bene o male ma anche chiedersi se il bene al quale educo è un bene reale o apparente. Se non lo si fa, a fin di bene si compiono aberrazioni imperdonabili.
Non parliamo dunque delle aberrazioni che finiscono sui giornali: preti pedofili, import di ragazze indiane per riempire le nostre case in via di estinzione, spaccio della religione a fini di plagio… Parliamo delle aberrazioni sotterranee, dall’inizio di bene, addirittura giustificabili. Ma che uccidono quanto quelle palesi. Non subito però, ma con lunga e lenta agonia. Dimenticanze, sviste, errori non colpevoli, facilonerie, rette intenzioni, complicità sornione che non annullano l’impatto del vangelo sulla vita della persona, ma lo umiliano. Non portano immediatamente su una brutta via, ma solo con il tempo tale si mostrerà. Queste sono aberrazioni più aberranti di quelle esplicite, perché innescano un processo di crescita apparente che della vita cristiana rispetta il guscio ma la svuota di vigore. Ci limitiamo ad alcuni esempi presi dalla formazione seminaristica. Non per criticare ma per affinare l’attenzione dell’educatore.
Nel discernimento iniziale
• Ragazzo ventisettenne in ricerca vocazionale da due anni, ancora nel dubbio se farsi prete oppure no. Consiglio: “non sei ancora sicuro della vocazione? Intanto inizia a frequentare la teologia da esterno e poi si vedrà”. Il consiglio sembra saggio: nessuna scelta preliminare ha ancora la consistenza per dirsi definitiva. Ma è assurdo perché la scelta preliminare vocazionale deve già contenere un orientamento e una tensione positiva verso il suo compimento, se ci sarà. Ciò non è garantito dal “prova a vedere se…” (che è ben diverso dal “vieni e vedi” evangelico). Un consiglio così ufficializza uno stato di perenne indecisione. L’assenza dell’osare in partenza, rischiare “in Suo nome” (di Dio, non di quello del rettore!), della prospettiva di comperare e semmai scartare dopo, anziché ossessivamente tastare con la riserva se poi comperare o no, fanno di quell’anno di teologia uno sfogliare la margherita che vede il ragazzo a fine d’anno ancora al punto di partenza. Il primo anno di teologia non è la ricerca generica del progetto vocazionale. E’ già una verifica dei segni oggettivi di un effettivo orientamento al sacerdozio. Sposata inconsciamente la logica della sperimentazione, perché , allora, ce la prendiamo tanto con i fidanzati che “intanto convivono, poi si vedrà”. Se, con il tempo, questo ragazzo si abitua ad uno stile ossessivo di vita non dobbiamo meravigliarci. Lo abbiamo introdotto noi a sentire con un dito se l’acqua è calda prima di buttarsi. A volte si consiglia perfino di affrontare con la tecnica del “prova e poi si vedrà” il dubbio se fare o no domanda di ammissione agli ordini sacri.
• Inizio delle lezioni di teologia: 2 Ottobre. Metà settembre: nessun nuovo ingresso all’orizzonte. 15 Ottobre: il rettore presenta due nuovi ragazzi, entrati da appena due giorni in seminario e da lui conosciuti solo 15 giorni prima (è successo che il rettore non conoscesse neanche il cognome di quegli sprovveduti). Speranza recondita che fugasse dubbi di aberrazione in atto: forse, quei due, sono stati seguiti da un direttore spirituale che aveva buone ragioni per tenere segreta la cosa fino all’ultimo. Chiedo se per caso si sono confrontati con qualcuno sulla scelta. Risposta: sì, con il direttore spirituale che –meraviglia delle meraviglie- dicono essere il rettore conosciuto, appunto, 15 giorni prima. Il messaggio silenzioso (ma non troppo) dato a questi ragazzi è: il treno passa quando tu vai alla stazione. Quattro o cinque messaggi di questo genere (non imprevedibili visto che i due sono i soli a preservare il seminario dall’estinzione) e avremo fatto due preti che arrivano sempre in ritardo: non per infrazione del galateo ma per appresa (dal seminario!) consapevolezza che nulla ha il potere di legarci al palo.
Proviamo ad immaginare che i due messaggi educativi riguardino lo stesso ragazzo. Iniziato alla mentalità della prova e al principio di flessibilità (il tutto intellettualizzato sotto l’egida della gradualità della legge), quando quel ragazzo si troverà di fronte alle esigenze di totalità e perennità della sua scelta proverà inquietudine. Non quella che ti apre alla meraviglia estatica di fronte al mistero ma quella che ti fa sentire paura e ti porta ad attivare meccanismi di autoprotezione. Se in quel momento l’educatore continua con la tecnica della prova e dell’orario su misura il gioco è fatto. Avremo un prete prudente (=eterno sperimentatore), con tanti impegni (=sempre svincolato), capace di organizzarsi (= farsi la vita su misura sua), che sa parlare (=usa paroloni che mediano il nulla). Della buona superficie tutti vedono. Delle apparenze di bene, nessuno. Abbiamo fatto un bravo prete. Peccato che non conosca il brivido! Ma forse è meglio così perché come diceva don Abbondio del cardinale Borromeo “oh che sant’uomo! Ma che tormento!”.
Nell’iter formativo personale o comunitario
• Se passiamo al versante spirituale non c’è da stupirsi di meno. Ammesso che il seminarista abbia un direttore spirituale (cosa da dimostrare), ci si accorge che la direzione spirituale è in realtà un incontro veloce ogni due o tre mesi dal contenuto generico “e allora come va?”. Senza collegare l’incontro di oggi con quello di ieri e di domani. Dove eravamo rimasti, dove siamo arrivati? Quale obiettivo vogliamo raggiungere? Si conclude invece con un vago “e allora ci sentiamo”, oppure con la confessione che non è come dice il rito “incominciare a pensare, a giudicare e a riordinare la propria vita, mossi dalla santità e dalla bontà di Dio” (Praenotanda 6a) ma un più generico lavacro senza conseguenze (“beh!, orsù! Cerca di fare a modo!”). Il Signore disse a Ezechiele (37,1-14) “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere? Annunzia loro: ossa inaridite, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne. E io sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato”. La direzione spirituale, ben lungi dall’essere pia conversazione, si mette in questa linea di attivazione dinamica e ricomposizione delle forze realmente presenti nel soggetto il cui esito fa rumore e mette in moto.
• Tema molto gettonato: maturità affettiva. Svolgimento: la affettività del prete si fa dono e trova il suo pieno compimento nell’amore oblativo che nulla trattiene per sé. Amen!
E in questo sproloquio, la vita concreta dove è? E l’aggancio fra questo auspicabile esito e il punto in cui si trovano i seminaristi? Addio bei tempi nei quali i nostri giovani rampolli facevano le 6 domeniche di S. Luigi Gonzaga a tutela della loro purezza. Oggi anche loro provengono da famiglie problematiche o con alle spalle una vita sessuale non proprio secondo i canoni cattolici e sanno che basta un clic sul computer per fare sesso virtuale.
Della maturità affettiva si salta il tema del sesso: non quello che contribuisce a fare della vita una sinfonia spirituale a più mani ma quello istintuale che funziona con leggi autonome, quello che fa sì che il maschio anche se prete rimane sempre un maschio attratto da una femmina, quello che produce pensieri impuri che sempre rimarranno e guai se non fosse così. Il sesso non è qualcosa che o non dà più fastidio o se si sente è porcheria. Come è possibile vivere il celibato se si rimane intrappolati nella pericolosa scissione fra attrazione per il valore e richiamo degli istinti? La spiegazione del senso del celibato ci vuole, ma senza capire dove si trova la persona concreta, non regge alla prova della realtà. E’ triste e ingiusto sentir dire “ho lasciato il seminario perché mi sono innamorato di una ragazza”.
Nell’esordio pastorale
• A un mese dall’ordinazione, Francesco viene nominato parroco di tre piccole parrocchie confinanti. Una di pianura, una di collina e l’altra di mezza montagna. Tre canoniche ristrutturate dai suoi predecessori morti e finemente ammobiliate con quadri e mobili antichi, sottratti per sicurezza alle rispettive sagrestie e più sicuri in casa che in chiesa. Per mandare pari i parrocchiani Francesco aveva scelto di abitare d’inverno nella casa di pianura, d’estate in quella di montagna e in primavera nell’altra. Un giorno lo andai a trovare e si scusò del giardino in disordine: “appena ho un attimo di tempo, metto sotto i miei operai a risistemare tutto”.
Il giorno dopo incontro Ciro. Anche lui fresco di studi, aveva appena trovato il suo primo impiego provvisorio, tramite un’agenzia di lavoro interinale, dall’altra parte dell’Italia. Con la sua valigia si trasferisce, lo stipendio gli permette solo un posto letto a 450 Euro al mese in un appartamento di 70 mq occupato anche da altri 6 ragazzi/e, in una stanza da condividere con un altro che pretendeva campo libero nei week-end perché si doveva incontrare con la sua ragazza. Anche Ciro mi disse “appena ho un attimo di tempo, mi metto sotto a fare tutte le agenzie, se no rimango sempre nel provvisorio”.
Francesco e Ciro: stessa età, stessa situazione di primo impiego, ma dalle valenze formative ben diverse. E’ il problema dei ruoli. E del messaggio ad essi correlato. Non quello del decreto vescovile di nomina ma quello che ‘cola’ direttamente dalla situazione in cui ci si ritrova ad essere. Tante cose, tanti mobili, tanti quadri mette inevitabilmente Francesco in una situazione di potere, ben espressa nel suo dire “metto sotto i miei operai”. Il dover gestire tante risorse (5 messe, tre consigli pastorali, tre catechesi…) lo fa inevitabilmente diventare un manager: il suo dire “appena ho un attimo di tempo” è paragonabile a quello del manager che, occupandosi della produzione, non può perdere tempo ad ascoltare i suoi operai. Le stesse parole le usa Ciro, ma questa volta denunciano il suo stato di precarietà e l’urgenza di concentrare le energie (sue, non quelle dei suoi operai) per non fare passi falsi che lo comprometterebbero come persona. “I miei operai” dice il primo. “Le mie forze” dice il secondo. Discorso di comando il primo, discorso di coinvolgimento personale il secondo.
Ciò che è normale e buono non automaticamente è anche ciò che fa trascendere secondo una logica di amore geocentrico
Trovarsi “qui” piuttosto che “là” non è irrilevante ai fini della effettiva capacità di maturare o regredire nella propria vocazione. Il ruolo nei suoi dati oggettivi, per quello che è, e non solo per come viene interpretato dal soggetto, ha il potere di forgiare la sensibilità interiore e il comportamento, il modo di sentire e quindi di fare. Questa differenza di identità risultante, fra Francesco e Ciro, si rendeva visibile nel semplice loro stare a tavola: don Francesco afferrava la bottiglia del vino con il cipiglio del pilota al volante della sua Ferrari e riempiva solo il suo bicchiere, Ciro serviva prima gli altri e poi se stesso.
Queste sviste non si vedono, non fanno rumore, non reclamano di essere corrette, si adattano ad una formazione del resto buona. Anzi la soluzione che prospettano può apparire come la migliore possibile. L’inconveniente è che creano dei cunicoli nel cuore che rallentano il cammino o innescano una regressione che solo nel tempo apparirà. Ma quando apparirà, nessuno ricorderà più le premesse gettate anni prima e dello sventurato non resterà che avere commiserazione.
Perché aberrazioni?
Perché sfregiano la sublimità della vocazione. Che il ragazzo in formazione tenti inconsciamente di “fare la tara” è comprensibile e prevedibile. Di fronte alla sublimità (non alla difficoltà!) della proposta cristiana, ogni soggettività, anche la più disponibile, ha un’immediata reazione di paura perché è ontologicamente inadeguata a contenerla e l’io inconsciamente tenta di ricondurre a sé quell’appello anziché adeguarsi, lui, ad esso. Se così non fosse, non ci sarebbe bisogno di formazione e la stessa grazia divina sarebbe un sovrappiù inutile per un’impresa a misura d’uomo.
Ma che questo svilimento entri a far parte della proposta stessa non è possibile perché la svilisce nella sua qualità essenziale. Così facendo, non si tratta più di comprendere l’ambivalenza del cuore umano di fronte alla proposta, ma di ridurre il vigore che la contraddistingue. E’ un riduzionismo a livello della oggettività e non una comprensione della soggettività ricevente.
"I valori morali hanno perduto la loro evidenza e così pure la loro istanza vincolante. Essi sono sì obiettivi totalizzanti, per i quali ci si entusiasma e infervora; il fatto però che essi obblighino anche me, anche quando hanno effetti per me svantaggiosi, quando mettono in pericolo la mia libertà e la mia tranquillità personale, ciò semplicemente non é ragionevole. In questo modo, però, tali finalità finiscono per essere ampiamente inefficaci e lo slancio retorico, con il quale vengono esibite pubblicamente e propugnate in continuazione nei discorsi, é certamente una forma di compensazione a tale mancanza di efficacia concreta”. (J. Ratzinger, Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, Paoline, Milano 1992, 21.)
Nei nostri esempi: impostare l’inizio del cammino sulla mentalità della prova e della flessibilità, fare della direzione spirituale una conversazione più o meno intima, proclamare affermazioni di principio senza contestualizzarle nel tessuto vivo della situazione, lasciarsi modellare dal ruolo… costituiscono un degrado perché relegano nello sfondo l’essenza sublime della vocazione, presupposta ma non condizionante. C’è differenza fra la ricerca della verità oggettiva e soggettiva (tipica dell’agire formativo) e la semplice conversazione (tipica dell’agire conviviale). Nel primo caso ci si accorda in anticipo si ciò che si vuole ricercare, mentre chi conversa lascia il tema e l’esito all’improvvisazione. Se la formazione si trasforma in convivialità, diventa inutile chiedersi se Cristo è modello di vita o un poeta.
Dietro alle crisi dei preti non è difficile individuare, come origine remota, la mancata presa in considerazione del nucleo sublime della vocazione, per cui alle prime difficoltà serie ci sente perduti non perché si è perso il piacere di essere preti ma perché non lo si è mai sperimentato.
Aberrazioni dunque per negligenza di spiritualità e non di psicologia. Al limite, nella formazione si possono anche tralasciare le competenze psicologiche, ma se si indebolisce in partenza lo spessore teologico/spirituale che quelle competenze volevano far risaltare è davvero una aberrazione. Quando è così, è meglio lasciar perdere anche la psicologia.
Lo sfregio alla persona
Il terremoto preti pedofili ci ha ricordato che il problema pedofilia non è tanto di sessualità né di controllo degli impulsi, ma di fissazione evolutiva. Molti studi concordano nel dire che il pedofilo ha un arresto evolutivo, per cui è rimasto alla stessa età psicologica della sua vittima. Di solito, non è eccitato da un bambino in particolare ma dal genere infantile, dal profumo e odore di ogni bambino. Identificandosi con l’infanzia, soddisfa il suo bisogno di controllo usando quella come oggetto manipolatorio. Ciò (anche) perché certi aspetti della personalità del pedofilo sono rimasti congelati (soprattutto quelli relativi alla stima di sé, potere, armonia fra autonomia e dipendenza). Per quelli l’orologio si è fermato. Ibernati anche per anni, emergono più avanti. Ma dato che nel frattempo non hanno subìto lo sviluppo dovuto, emergono in forma oltre che infantile anche perversa e condizionano negativamente la gestione dei nuovi compiti evolutivi che vengono affrontati in modo patologico.
La pedofilia può essere un caso estremo della possibile dinamica innescata dalle aberrazioni educative. Ciò che prima non è stato affrontato con successo appare dopo in forma patologica e può compromettere lo svolgimento di ciò che avverrà dopo. Negli anni di seminario si tralasciano aspetti importanti del tessuto umano sui quali si innesta il seme della vocazione, vuoi per problemi inerenti alla personalità del formatore, vuoi per falsi motivi di comprensione, pazienza, rispetto dei ritmi di crescita… Questi aspetti, scissi dall’iter formativo, rimangono congelati e perciò non mandano subito segnali di protesta. Anzi, tutto procede bene perché il formatore e l’interessato si astengono dall’entrare in tematiche che farebbero saltare questo benessere apparente (quanti rettori da battistrada si trasformano in pacificatori e appena eletti cadono nella sindrome del mammismo!) Trascorsi gli anni di formazione, l’impatto con la realtà pastorale (non sempre alleata della crescita spirituale del prete) trova quel soggetto sereno (= congelato) inadeguato e quegli infantilismi prorompono in modo eclatante. Ciò che all’inizio poteva essere integrato abbastanza facilmente, oggi si presenta incancrenito e ci vuole una lunga opera di scrostamento dagli esiti incerti. Davvero, all’inizio, si erano amate e rispettate le persone? Gli effetti direbbero che si erano elegantemente disprezzate, viste come si voleva che fossero e non come avrebbero potuto fiorire. Questo disprezzo è dimostrato dal fatto che ciò che all’inizio della formazione era considerato irrilevante per l’assunzione dell’impegno, è poi considerato determinante per la dispensa dallo stesso. Non si sono amate le persone né prima (“non importa”, “va avanti”, “parliamo d’altro”, “la situazione impone che”…) né dopo (“ma come?”, “chi lo avrebbe mai detto?”, “non ci sono più le condizioni”…). E’ la cosiddetta sindrome di Pilato: usato Gesù finché serve, dopo infastidisce.
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