Intuizione vocazionale e costruzione della personalità


Stefano Guarinelli


1. Introduzione

L'esperienza della chiamata, dalle figure bibliche di vocazione ai molti resoconti presenti nella letteratura agiografica, non può essere ricondotta ad un insieme di schemi irreformabili. Si possono trovare alcuni dinamismi ricorrenti, alcune linee di tendenza nella fenomenologia della vocazione. C'è, però, un'originalità irriducibile che appartiene perlomeno all'originalità del chiamato, sempre unico e irripetibile come ogni persona umana; e poi, così crediamo, c'è un'originalità altrettanto irriducibile che appartiene all'iniziativa di Dio, e alla sua libertà. Da ciò, ogni riflessione sulla vocazione rischia di avere in sé qualcosa di temerario. Lo si può constatare quando si pretende di considerare la natura dei segni e il loro discernimento, quasi che si possa far diventare l'azione di Dio oggetto di una scienza positiva.
In questo senso occorre precisare con accuratezza il proprio punto di vista. Una riflessione psicologica sulla vocazione cristiana non può comportare in alcun modo una valutazione dei modelli di vocazione o dei segni di una vocazione. Essa intende rispondere, piuttosto, ad un interrogativo: che cosa "si muove" nella persona umana che vive all'interno di quell'esperienza che lei stessa identifica come "vocazione"? Eppure, anche una riflessione soltanto psicologica spontaneamente si allarga perché, come vedremo, aggiunge qualche tassello in più alla domanda centrale dell'antropologia teologica, che riecheggia le parole del salmo: «che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?» .
Ritengo che l'interesse delle riflessioni che seguono derivi da un insieme di considerazioni che non provengono dalla previa messa a punto di un modello teorico e dalla successiva rielaborazione, deduttiva, di un insieme di dati. Raccoglie piuttosto ciò che induttivamente emerge dalla pratica, della valutazione e dell'accompagnamento psicologico di persone che si riconoscevano all'interno di un orizzonte vocazionale.
Collocandoci in una prospettiva psicologica ed esaminando le esperienze di vocazione "all'interno" del chiamato mi pare si possano individuare alcuni legami, alcuni dinamismi che mostrano un'interazione fra gli aspetti emozionali di un'intuizione vocazionale e i processi di costruzione e di funzionamento della personalità.
Accennare alla presenza di un'interazione fra la vocazione e la costruzione della personalità o, detto in altri termini, fra la vocazione e la biografia della persona potrebbe far nascere il sospetto che si voglia affermare che nella prima si riproduca la seconda. Ciò sarebbe oltremodo problematico, considerando precisamente la fenomenologia e la teologia della vocazione cristiana. Infatti, pur ribadendo l'impossibilità di giungere a schemi definitivi di vocazione, nella letteratura biblica e in quella agiografica si può comunque evidenziare un elemento ricorrente: la chiamata sembra comportare un notevole cambiamento di vita e perfino di identità.
Di che tipo di interazione allora si tratta?
Precisamente perché la vicenda delle riflessioni che seguono proviene dall'esperienza, vorrei procedere induttivamente, con il ricorso ad alcune vignette paradigmatiche.

1.1. Michele
Michele è un seminarista di V Teologia; ha 26 anni. È figlio unico.
Il padre è un professore universitario, molto conosciuto e apprezzato negli ambienti accademici; profondo conoscitore del cristianesimo, è un uomo di fede e di grandi valori, molto esigente, con se stesso e con gli altri. La madre, più giovane del padre di quasi quindici anni, non ha concluso gli studi universitari essendosi sposata quando era ancora giovane studentessa e il marito assistente di Filosofia del Diritto. È una donna molto pratica, saggia. È stata lei ad occuparsi della crescita e dell'educazione di Michele, giacché il padre, oltre agli impegni consueti di vita universitaria, era legato agli ambienti politici nazionali ed era spesso fuori città.
Michele, che dichiara un ottimo rapporto con i suoi genitori, ha maturato la scelta di entrare in seminario e diventare prete durante l'anno di servizio civile presso una comunità di disabili. Il prete, secondo Michele «è quell'uomo che, come Gesù, si prende cura di tutti i "piccoli" della Terra». L'immagine di Dio è quella di Gesù «che è uno di noi, che ti fissa e ti ama di amore tenero e profondissimo e che se hai incrociato il suo sguardo ma te ne vai... allora sarai triste».

1.2. Fulvio
Fulvio è un diacono. Ha 31 anni.
La madre di Fulvio era rimasta vedova quando il figlio aveva quindici anni. Oltre a Fulvio c'è un altro figlio, maggiore di sette anni, che è sposato da quattordici e ha due figlie. Il padre era un impiegato di banca, affettuoso e attento alla sua famiglia, ma anche prudente, capace di mediare i conflitti e contenere l'esuberanza della moglie, donna molto vivace, talora perfino "troppo" affettuosa e un po' apprensiva. Con la morte del padre la figura di lui è stata via via idealizzata e la madre è diventata sempre più accentratrice.
In famiglia tutti si sono sempre caratterizzati per una vita cristiana impegnata, in modi diversi: il padre, la madre e Fulvio molto legati alla parrocchia e all'oratorio; il fratello, invece, vicino al movimento di Comunione e Liberazione, conosciuto in università.
Fulvio ha sempre avuto pochi amici e non ha mai avuto una ragazza. Ha deciso di entrare in seminario dopo la laurea in Scienze Politiche, raggiunta dopo un itinerario un po' stentato. Descrive la propria scelta come «un mistero anche per me...». Si sente attratto in modo particolare dall'idea della consacrazione totale, definitiva e radicale al Signore. La scelta specifica di essere prete diocesano è motivata dal fatto che «Il Signore mi ha fatto incontrare loro».

1.3. Marco
Marco è un seminarista di II Teologia; ha 22 anni.
Il padre è un piccolo imprenditore della provincia di Como; molto dedito al lavoro, è un uomo severo e assai sobrio nell'espressione affettiva; non è credente, è piuttosto critico nei confronti della Chiesa e svalutativo nei confronti dei preti. La madre è casalinga; di temperamento dolce e accomodante, si è sempre occupata del marito e dei figli e non ha mai lavorato; proviene da una famiglia dalla religiosità piuttosto tradizionale e frequenta la messa domenicale. Marco è il terzo di tre fratelli, due maschi e una femmina. Il fratello e la sorella di Marco hanno frequentato l'oratorio fino ai sedici e diciotto anni, rispettivamente. Attualmente frequentano la sola messa domenicale, ma in modo discontinuo.
Marco ha deciso di entrare in seminario perché affascinato soprattutto dalla figura del vicario parrocchiale, uomo simpatico e caloroso.
Marco fatica non poco nello studio della Teologia, ma anche nei rapporti con i suoi compagni. Dice di sostenere con disagio il clima di diffusa competitività che sente in seminario. L'immagine di Dio è quella del Padre misericordioso, della parabola di Lc 15,11-31, che ti perdona sempre, perché «io mi sento come il figlio della parabola».



2. Considerazioni psicodinamiche

Le tre brevi vignette descrivono tre vicende in cui è messo a fuoco in modo particolare l'inizio dell'esperienza vocazionale. I paradigmi sono molti diversi eppure, in tutti e tre i casi, mi pare si possa notare agevolmente l'intreccio fra l'esperienza della vocazione e gli elementi psicodinamici e psicogenetici della personalità di ciascuno dei tre giovani seminaristi.
Al di là dei singoli casi riportati, ritengo questo nesso una costante.
Il dato potrebbe essere trascritto in forma di tesi nel modo seguente: esiste una grammatica fondamentale, che procede dallo strutturarsi della personalità dei singoli (e che dunque ha a che fare con la loro biografia), che entra a far parte dell'esperienza della vocazione, come sua grammatica fondamentale.
Vediamo meglio.
In che cosa consiste questa grammatica fondamentale ? E qual è la forma del legame presente fra questa grammatica fondamentale e l'esperienza della vocazione?
Per rispondere, prendo spunto, di nuovo, dalle tre vignette di partenza.


2.1. Psicodinamica del caso di Michele
Il quadro psicodinamico sintetico della personalità di Michele presenta la relazione con il padre all'insegna di una grande ammirazione per lui e, dunque, del desiderio di identificarsi con lui e con il suo mondo di valori. Tuttavia questo processo è reso più difficoltoso dalla distanza affettiva della figura paterna. La condivisione dei valori nella situazione di una frustrazione dell'attesa affettiva sembra trovare una risposta nella dedizione verso chi è più debole. L'istanza di valore è recuperata in un contesto affettivo che annulla la distanza, ma che lo fa verso un "piccolo" e, dunque, proteggendo dalla possibile insicurezza derivante da un rapporto alla pari. L'immagine di Dio sembra corrispondere a quella di una prossimità affettiva, intima e tenera.
Complessivamente si può dire così: il valore paterno è "passato", ma è stato integrato da ciò che nella trasmissione del valore mancava.


2.2. Psicodinamica del caso di Fulvio
Il quadro psicodinamico sintetico della personalità di Fulvio mostra la dominanza affettiva, reale, della figura materna e l'idealizzazione di quella paterna. In questa direzione la famiglia diviene un ambito tendenzialmente autoreferenziale, in modo particolare proprio per Fulvio. Ciò è visibile, ad esempio, nella contrazione del suo spazio affettivo e sessuale. In lui la scelta del sacerdozio sembra assumere la forma della "consacrazione" ad uno stato di vita che, in realtà, finisce per congelare lo stato di dipendenza dalla famiglia, pur apparendo una scelta di autonomia dalla famiglia.

2.3. Psicodinamica del caso di Marco
Il quadro psicodinamico sintetico della personalità di Marco segnala la percezione di una distanza, a tutti i livelli, dalla figura paterna, con lo sviluppo conseguente di un notevole senso di insicurezza, soprattutto per quanto riguarda i processi di consolidamento dell'identità. La positiva relazione affettiva con la figura materna, in un certo modo "peggiora" il funzionamento di tali processi. In condizioni di insicurezza, infatti, il positivo rapporto con la madre non favorisce in Marco lo sganciamento dall'orbita materna e il consolidamento della propria autonomia.
In questo caso la scelta del ministero è segnata consapevolmente dall'identificazione con la figura di un uomo capace di vicinanza affettiva e dall'autonomia dai valori proclamati dal padre. Nella scelta per il ministero, in realtà, Marco finisce inconsapevolmente per perpetuare la dipendenza (in negativo) dalla figura paterna. Egli sceglie, infatti, un ruolo che conferma la propria esclusione dall'affetto del padre, reinterpretandola però come il prodotto di una "colpa" propria. L'immagine di Dio sembra segnata da questo dinamismo.



3. La natura del legame

Assumo, in modo convenzionale, che i livelli dell'esperienza e, dunque, le rispettive linee di sviluppo (che sono poi i livelli della personalità), possano essere ricondotti a tre: il livello affettivo (o emozionale, o emotivo), il livello cognitivo (o intellettuale, o razionale), il livello volitivo (o conativo).
Con grammatica, dunque, intendo l'intreccio dei livelli dell'esperienza nella personalità (o i livelli della personalità). Utilizzo la metafora della grammatica perché, in primo luogo, ogni livello contiene al suo interno molti elementi, che sono come i vocaboli di una lingua: il livello affettivo, ad esempio, comprende tutto il repertorio emozionale di una persona (rabbia, tristezza, gioia, ecc...); in secondo luogo, l'intreccio dei tre livelli costituisce per la personalità un sistema, del tutto analogo a quello del linguaggio. Si definisce e si distingue un sistema, ad esempio da una semplice collezione di oggetti, a partire dal fatto che quegli oggetti sono interconnessi da una qualche relazione dinamica. Il linguaggio è un sistema, perché il ricorso ai vocaboli di una lingua può essere fatto a patto di utilizzare un insieme di regole, che sono appunto la grammatica di quella lingua.
Come nel linguaggio, così l'intreccio dei livelli della personalità offre un repertorio semantico e sintattico che consente infinite narrazioni. Con ciò intendo anche sgomberare il campo dal sospetto che l'esperienza della vocazione possa costituire una sorta di trascrizione deterministica della personalità o di aspetti della personalità.
Consideriamo il caso di Michele: perché Dio non si mostra, in continuità con la figura paterna, alla stregua di un padre esigente e irraggiungibile? Consideriamo il caso di Fulvio: perché la spinta alla legittima indipendenza non lo spinge anche ad autonomizzarsi dal mondo di valori proclamato dalla propria famiglia, compresi i valori cristiani? Consideriamo il caso di Marco: perché egli non cerca di riscattarsi dalla propria insicurezza, scegliendo di compiacere il padre in una scelta omogenea con l'orizzonte di valori di lui, anziché in un orientamento verso il sacerdozio che lo costringe invece a perpetuarla?
In realtà tutte le precedenti domande sono prive di senso. Sono utili, però, a mostrare, in primo luogo che l'affermazione dell'esistenza di un legame fra vocazione e biografia non deve condurre a considerare tale legame come univoco, oppure individuato muovendo deterministicamente dalla biografia alla scelta vocazionale; in secondo luogo che neppure l'adesione ad una scelta di vita che in se stessa sembrerebbe in grado di dare una nuova forma all'esistenza di una persona, in realtà lo fa prescindendo dalla biografia di quella persona o senza entrare almeno in dialogo con questa.
In altre parole: per descrivere il rapporto fra la costruzione della personalità (o la biografia) e l'intuizione vocazionale, il ricorso ad un modello "della causa iniziale" (o archeologico), ma pure il ricorso ad un modello "della causa finale" (o teleologico) si rivelano inadeguati. La forma assunta dal legame è un racconto inedito, scritto almeno dalla persona, che si riconosce in una vicenda di vocazione.
Uscendo, almeno per un attimo, dallo spazio ristretto della riflessione psicologica, è chiaro che potremmo riconoscere nel Dio di Gesù Cristo il secondo autore di quel racconto inedito. Una riflessione puramente psicologica non ci consente, tuttavia, una simile affermazione. Mi permetto però di cambiare, almeno per un attimo, il punto prospettico (ma forse sarebbe meglio dire: di allargare l'orizzonte), per segnalare l'omogeneità dell'osservazione psicologica con quella che deriverebbe da una riflessione teologica sull'esperienza della vocazione.
Che un modello psicologico, deterministico, della causa iniziale possa essere ritenuto inaccettabile là dove "importato" in una riflessione teologica mi sembra fuori discussione: quale spazio potrebbe essere riconosciuto, a quel punto, alla libertà della persona umana?
Ho l'impressione, invece, che talora un modello della causa finale riscuota ancora un certo successo, almeno nella pratica formativa, ancorché in modo non necessariamente riflesso o tematizzato. Il modello teleologico, in sostanza, afferma che la vocazione "ti plasma", ti fornisce "una nuova identità"; oppure (che in fondo è ancora la stessa cosa) che ci si forma all'interno di una vocazione (ad esempio al ministero ordinato) nella misura in cui ci si conforma ad una figura "oggettiva" (magari istituzionale) di vocazione.
Non si può dire che sia scorretto affermare che la vocazione attribuisca al credente una nuova identità. Anzi: si potrebbe perfino sostenere che l'esperienza della vocazione è il riconoscimento dell'identità vera della persona. Questa, però, è tessuta su una trama preesistente, e non la può ignorare, anche nel caso in cui il risultato, la nuova identità, l'identità vera, sia qualcosa di totalmente inedito. L'affermazione, a mio parere, è scorretta quando, invece, sembra alludere ad una sorta di processo di sovrapposizione, del nuovo sul vecchio, così che di quest'ultimo non rimane traccia. Non solo una traccia rimane, ma più che una traccia, il "vecchio" configura una trama, appunto, senza la quale il "nuovo" non può essere tessuto.
Ritengo che un'icona efficacemente sintetica del processo vocazionale, che è simultaneamente "vecchio" e "nuovo", escludendo così la possibilità che ci si arresti o al polo archeologico o a quello teleologico, sia il brano evangelico della chiamata di Pietro e di Andrea .
Mi sembra che il brano traduca nel linguaggio biblico esattamente la questione che qui stiamo indagando. Nel Vangelo è in evidenza per Pietro, in modo particolare, un vero e proprio cammino di sviluppo, un mutamento di identità. Sarà un mutamento tanto consistente da esigere perfino il cambiamento del nome. Al di là degli aspetti connessi con la teologia del nome (in continuità con la prospettiva anticotestamentaria), anche in un contesto antropologico o psicologico può essere riconosciuto il rilievo del nome quale momento topico dell'identità personale.
Il Vangelo presenta la chiamata all'insegna del "nuovo" tessuto sul "vecchio": «sarai pescatore di uomini» . Il termine pescatore e la sua funzione nel testo mi pare corrispondano bene a ciò che intendo affermare. La novità di una vocazione, che sarà assolutamente inedita (pescatore di uomini), è tessuta su un'identità (pescatore) che traghetterà l'uomo vecchio verso l'uomo nuovo; ma non solo: essa renderà l'uomo vecchio realmente parte di quella vocazione che è riconosciuta nell'uomo nuovo, trasfigurando così l'intera esistenza di Pietro in una storia di salvezza. In questo senso Pietro scrive la propria vocazione nel momento stesso in cui questa gli è data in dono. In altre parole: la persona umana, con la sua biografia, crea la vocazione che riceve. E non c'è contraddizione in questa affermazione. Anzi: questa apre lo spazio ad un'autentica teologia della biografia.
Non si può spiegare (dunque in una logica della causa iniziale) in Pietro l'essere pescatore di uomini come prodotto dell'essere pescatore... di pesci. Quasi che l'uno sia in continuità con l'altro, come suo esito possibile. Ma neppure si può comprendere (dunque in una logica della causa finale) la forma data da Gesù alla vocazione di Pietro, senza il ricorso a quel contatto con la sua trama storica, che sin lì lo consegnava a Gesù come pescatore. Gesù non chiama Pietro dicendogli «Sarai Sommo Pontefice a Roma». Eppure, in un certo senso, proprio di ciò si trattava!
 


4. Natura e funzione della grammatica precoce

La grammatica degli stadi più precoci costituisce la "lingua-madre" sulla quale si strutturano gli apprendimenti delle lingue successive. Questo significa che ogni situazione di vita che il soggetto incontra negli stadi successivi del suo sviluppo, in qualche misura viene "tradotta" dalla grammatica precoce, diventando così esperienza della realtà. La metafora declina quel principio, sostenuto da tutte le teorie dello sviluppo psicologico attente al funzionamento intrapsichico, che afferma la "discontinuità nella continuità". Ovvero: lo sviluppo procede in presenza di un insieme discreto di cambiamenti, ma in una tendenziale continuità fra uno stadio, il precedente ed il successivo. Inoltre, nella prospettiva di tutte le teorie dello sviluppo psicologico attente al funzionamento intrapsichico, la grammatica più precoce (o la "lingua-madre") è "ad alto tenore emotivo" perché negli stadi di sviluppo primitivi i livelli cognitivo e volitivo sono molto ridotti rispetto a quello affettivo.
Questo significa che la "forma" emozionale della nostra personalità mostra una tendenziale conservazione nel tempo. È importante sottolineare l'aggettivo qualificativo, tendenziale, accostato al sostantivo conservazione. Sarebbe riduttivo, infatti, e in definitiva non corrispondente alla realtà, considerare i cambiamenti occorsi nello sviluppo adulto alla stregua di riedizioni idiosincratiche di schemi di comportamento infantile. Tuttavia, mi sembra opportuno parlare comunque di conservazione: nell'interpretazione di un vissuto o di un comportamento adulti, se sono da tenere presenti simultaneamente l'aspetto genetico (la spiegazione) e l'aspetto finalistico (la comprensione), non si può dire che l'apporto dei due possa ritenersi del tutto paritario o equilibrato. Mi pare che precisamente la metafora della lingua madre sveli, infatti, una certa priorità del momento genetico. La priorità non è relativa ai contenuti dello sviluppo adulto, quanto piuttosto alla capacità del momento genetico di conferire loro una coloritura affettiva. Ciò è come dire che un'esperienza nuova (o la possibilità di un'esperienza nuova) che il soggetto incontra nella sua vita può modificare i livelli cognitivi e volitivi della sua personalità almeno più facilmente di quanto non possa realisticamente fare con quello affettivo. Dunque l'attrazione (o la repulsione) suscitata dalla prospettiva di aderire a (o di introdursi in) quell'esperienza nuova non può essere ricondotta solamente a quest'ultima, per quanto inediti possano apparire i suoi contenuti.



5. Coloritura affettiva della psicodinamica centrale

Ricondurre il funzionamento della personalità di un soggetto adulto a un insieme di processi ha in sé qualcosa di improprio o quanto meno di riduttivo. Non si riuscirebbe, in un tal caso, a non avere la sensazione di pensare all'essere umano così come ci si immaginerebbe il funzionamento di un microprocessore che, per quanto complesso, è pur sempre una "macchina". Riconoscendo tuttavia alle riflessioni che seguono il carattere inevitabilmente e dichiaratamente semplificante proprio dei modelli, mi sembra che fra i molti sottoprocessi che sono parte della psicodinamica del soggetto adulto, possiamo individuarne alcuni che ricorrono con maggiore frequenza rispetto ad altri.
Che ci siano alcuni modi di funzionamento che tendano a stabilizzarsi nel tempo non dovrebbe destare mistero. Ha a che fare con quell'idea, diffusa nel senso comune, che attribuisce a ciascuno un carattere, successivamente qualificato come più o meno brutto, o più o meno bello. L'aspetto psicodinamico del carattere, in realtà, è qualcosa di più complesso, ma questo ci porterebbe fuori dal nostro tema. Qui interessa almeno considerare l'esistenza di una sorta di psicodinamica centrale (di cui il carattere può considerarsi come il tratto emergente, in condizioni abituali), che costituisce l'aspetto unificante, la chiave d'accesso al funzionamento complessivo della personalità.
Ricorrendo ancora una volta alla metafora della grammatica, potremmo dire che quella psicodinamica centrale, proprio per il fatto di essere centrale non può non riprodurre o perlomeno interagire con la grammatica precoce. E ciò comporta che la psicodinamica centrale sia "ad alto tenore emozionale".



6. Rilevanza emozionale dell'intuizione vocazionale

Da un punto di vista teologico la vocazione sfida la persona ad un coinvolgimento esistenziale complessivo. Non corrisponde invece al semplice adeguamento ad uno stile di vita: ciò è stigmatizzato da Gesù come atteggiamento farisaico, legalista.
In questo senso, perciò, vocazione e conversione sono cammini intrecciati nell'esperienza cristiana.
Questo significa che, da un punto di vista psicologico, l'esperienza della vocazione si configura come una sintesi attiva dei processi della personalità, in grado di condurre ad un'integrazione nuova, più o meno inedita. In ciò necessariamente è implicata la psicodinamica centrale. Altrimenti sarebbe come dire che la persona chiamata vive, psicologicamente, "al di fuori" della propria identità più vera. Una simile affermazione sembra insostenibile da un punto di vista teologico. Lo sarebbe anche da un punto di vista psicologico, a meno di ritenere l'esperienza della vocazione alla stregua di un plagio, al limite perfino in grado di favorire una dissociazione nella personalità .
Quest'ordine di considerazioni mi sembra di rilievo.
Là dove un'intuizione vocazionale si accompagna con un movimento emozionale si può considerare in atto un positivo coinvolgimento degli aspetti centrali della personalità. La presenza di una risonanza emozionale, sia chiaro, è condizione necessaria, ma non sufficiente a valutare l'autenticità dell'intuizione vocazionale. Si tratta, in ogni caso, di un segnale importante. Allo stesso modo l'assenza di una risonanza emozionale non è sufficiente a stabilire l'inautenticità di un'intuizione vocazionale. Tuttavia si presenta come problematica perché segnala il possibile mancato coinvolgimento della psicodinamica centrale, con il rischio, perciò, che in quella intuizione (o scelta) vocazionale siano implicati aspetti di superficie della personalità, atteggiamenti "religiosi", ma che non intrecciano, o non intrecciano ancora, l'identità profonda della persona, che in questo modo rischia di rimanere "altrove".
In realtà dovremmo precisare meglio la questione dell'autenticità o inautenticità di una vocazione. In questo contesto possiamo limitarci a segnalare che il ricorso ai termini autentico/inautentico non è a significare la verità/falsità dell'intuizione (o della scelta). La verità di una vocazione è intrinseca al suo mistero, al suo essere dono di Dio e, come tale, deve essere oggetto, innanzitutto, di una riflessione teologica. Non è nostro obiettivo, dunque, affrontare qui la questione della verità di una vocazione. L'autenticità di una vocazione, invece, è un'altra cosa: si riferisce alla capacità dell'esperienza concretamente vissuta, di conformare il chiamato al Dio di Gesù Cristo. Una vocazione, dunque, al limite può essere vera ma inautentica, quando, ad esempio, è vissuta in modo strumentale, magari perché costruita su una immagine distorta di sé, o di Dio, o di sequela .
In ogni caso, il fatto che la presenza di una risonanza emozionale sia condizione non sufficiente per la validità di un'intuizione vocazionale, si lega a due considerazioni di ordine psicodinamico.
In primo luogo si deve richiamare quanto già delineato a proposito del tenore emozionale della psicodinamica centrale. L'emergere di una risonanza emozionale dice che, in qualche modo, potrebbe essere stata "toccata" la grammatica fondamentale della persona. Ciò è promettente; ma proprio perché l'elemento affettivo proviene dall'intreccio di aspetti genetici e di aspetti finalistici, occorrerebbe valutare il peso degli uni e degli altri. Ad esempio: una scelta vocazionale può affascinare, far autenticamente "innamorare", perché magari intercetta una ferita alla stima di sé. Questa, sentendosi "sanata" da una simile prospettiva, ne risulta fortemente attratta. Accade qualcosa di analogo alla vicenda di quella donna che per proprie qualità (bellezza, intelligenza, appartenenza sociale, ecc…) va a colmare una ferita nella stima di sé dell'uomo che si sente innamorato di lei. In questo senso il processo ha un che di narcisista o di terapeutico. La presenza di questo movimento emozionale, pure se riconosciuto come narcisista o come terapeutico, non invalida la possibilità che da quella intuizione emozionale scaturisca un'esperienza vocazionale (di consacrazione o matrimoniale) autentica. Sarà però da valutare in proposito la disponibilità della persona attratta o innamorata a lasciarsi attrarre a sua volta dall'oggetto della scelta. Si tratta, per la persona attratta o innamorata, di accettare di pagare il prezzo di un tale movimento: dal narcisista «ti amo perché mi servi» (che può valere per qualunque vocazione), al più equilibrato «ti amo perché ti servo» o, al più adeguato «ti amo perché servo te». È evidente che un tale movimento per giungere all'autenticità auspicata, dovrà coinvolgere la psicodinamica centrale e non limitarsi, invece, all'assunzione di un insieme di atteggiamenti di superficie.
In secondo luogo si deve precisare che cosa si intenda con coloritura affettiva. Questa, si badi bene, è relativa alla psicodinamica centrale, non necessariamente agli strati superficiali della personalità. In questo senso, il fatto che l'intuizione vocazionale comporti una risonanza emozionale non può essere rilevato da una semplice osservazione del comportamento manifesto.
Vediamo meglio.
Accade che alcune persone, nel corso del loro sviluppo, vivano in modo problematico il rapporto con la vita affettiva. È possibile che, per risolvere al meglio una tale difficoltà, finiscano per approntare uno stile abituale difensivo (che è un altro modo per dire la "scorza", lo strato visibile della personalità, cioè il carattere) che provvede a "parcheggiare" la vita emotiva. Si tratta di persone all'apparenza un po' fredde, un po' rigide, poco portate alla spontaneità e a comunicare, o anche solo a manifestare, i propri sentimenti. Per costoro è come se il mondo affettivo non ci fosse più. In simili casi l'emergere di una coloritura affettiva nel modo di sentire o raccontare l'intuizione vocazionale è promettente perché la probabilità che sia stata intercettata la coloritura affettiva della psicodinamica centrale è elevato, giacché un'altra coloritura, più di superficie, in realtà per quella persona non è mai esistita.
Questo approccio difensivo al mondo affettivo, tuttavia, non è l'unico. Vi sono altri approcci. Possiamo richiamarne uno, a titolo esemplificativo, che ha in sé qualcosa di clamoroso: come nello stile precedente il mondo affettivo viene "tolto" e magari sostituito con massicce intellettualizzazioni, qui invece viene sostituito da una ulteriore copertura emozionale, la quale è posta a impedire l'affioramento del mondo affettivo vero. È come se la persona si dotasse di un'emotività che, in realtà, è come fittizia, eppure impedisce di andare in profondità. La presenza di un elemento affettivo visibile segnala perciò un coinvolgimento (magari anche intenso) che potrebbe non corrispondere alla realtà delle cose. Questo significa che, dal punto di vista di un osservatore esterno, la persona vive frequentemente in un modo che sembra mostrare un coinvolgimento emotivo. In effetti proprio di emotività si tratta. Non si tratta, però, necessariamente, di un'emotività che va ad intercettare quella appartenente alla psicodinamica centrale.
Questo genere di considerazioni mostra l'importanza del discernimento psicologico di un'intuizione vocazionale. L'indagine psicologica deve avere come obiettivo, almeno ideale, quello di spingersi sino alla psicodinamica centrale. Solo in tal modo, infatti, è possibile giungere a comprendere la funzione e la consistenza degli aspetti emozionali della personalità e, soprattutto, la loro stratificazione o, detto in altro modo, la loro relazione con i dinamismi più profondi della personalità.
A prevenire l'obiezione, spesso all'orizzonte, di una possibile deriva psicologistica nel discernimento vocazionale, si noti che tale approfondimento psicologico non ha come obiettivo primario quello di fornire una valutazione vocazionale in senso ampio. Non riguarda, cioè, né l'autenticità, né tanto meno la verità della vocazione. Si riferisce piuttosto al funzionamento della vita emotiva all'interno della persona, così da cogliere meglio i linguaggi attraverso i quali quell'intuizione vocazionale è possibilmente veicolata.
Anche in questo caso il Vangelo ci viene in soccorso illustrando narrativamente le considerazioni precedenti. Mi sembra, infatti, che il brano dell'incontro di Gesù con la donna samaritana  illustri bene la presenza di quella doppia stratificazione emozionale di cui ho accennato. Le prime battute del dialogo fra Gesù e la donna si caratterizzano per la presenza di un registro emotivo che sembra celare ciò che viene alla luce solo nel momento in cui Gesù, senza soluzione di continuità, confronta la donna sulla propria vera situazione affettiva («[Gesù] le disse: "Va' a chiamare tuo marito e poi ritorna qui". Rispose la donna: "Non ho marito"»). Al tratto iniziale si sostituisce una consapevolezza differente: la samaritana ha avuto molti uomini, ma, in realtà, non ce n'è uno che sia veramente "suo". In tal modo, la dialettica iniziale, contrappositiva e forse seduttiva , della donna diventa, in fondo, la consapevolezza di uno stato di solitudine affettiva.



7. L'intuizione vocazionale come innamoramento

Nei casi in cui l'esperienza vocazionale viene descritta alla stregua di un innamoramento, la presenza dell'elemento emozionale trova dunque una possibile interpretazione dinamica nel fatto che la prospettiva della vocazione viene percepita come in grado di attivare o riattivare un tratto profondo, magari non integrato in precedenza. Prima di riconoscere, però, che si tratti realmente di un tale dinamismo, occorre che sia valutata la funzione della vita emotiva nella personalità del chiamato.
L'assenza dell'elemento emozionale, invece, sembra più frequente in quelle esperienze in cui la vocazione si presenta in maggiore continuità con gli aspetti dinamici e strutturali della personalità. Questo si verifica soprattutto in quei casi in cui è forte l'istanza legata ad un ruolo psicosociale più o meno definito, che si specifica, ad esempio, nella scelta per il ministero sacerdotale. In tali casi (nei quali perciò il linguaggio dell'innamoramento è meno in evidenza) il riassestamento della personalità in una sintesi nuova e magari inedita può essere meno significativo.
Da queste considerazioni mi pare si possa concludere che la presenza di un tratto emozionale nell'esperienza vocazionale degli inizi (la chiamata come "innamoramento") segnala, da un punto di vista psicologico, il possibile coinvolgimento della psicodinamica centrale di quella persona.
Trasferendoci in un orizzonte teologico-spirituale, questo significa che la presenza di un simile tratto non può essere considerata sufficiente ad affermare che ci si trovi di fronte ad un segno di vocazione. Più correttamente (anche se può sembrare un semplice gioco di parole) dovremmo dire che si tratta di un segno di attrazione verso la vocazione.
In modo speculare, l'assenza di un tratto emozionale non segnala l'assenza di un segno di vocazione. Da un punto di vista psicologico, però, segnala il possibile utilizzo dell'elemento vocazionale da parte dei processi della personalità di quella persona specifica. Il che è come dire che quella persona probabilmente si serve (in senso psicologico e non ancora morale) della propria vocazione e non, invece, che serve la (cioè: si pone a servizio della) propria vocazione.