Per un'efficace pedagogia: i Colloqui di Crescita Vocazionale



Si collocano tra la psicoterapia e la direzione spirituale, ma non si identificano né con l’una né con l’altra. I cosiddetti «colloqui di crescita vocazionale» (CCV) sono una modalità pedagogica di aiutare la persona nella sua maturazione umana e cristiana. Cosa sono e come si differenziano dalle forme più tradizionali di aiuto e di educazione personale alla crescita nella fede?

Una nuova pedagogia
Offerti presso il Centro di Consultazione della Gregoriana e dagli studenti usciti dall’Istituto di Psicologia della medesima, i CCV sono un aiuto per tutti coloro che vogliono maturare contemporaneamente nella conoscenza di sé ed insieme nel cammino di adesione al Signore e al suo progetto su di loro. Proprio allo scopo di integrare le due dimensioni di crescita (umana e cristiana) la nuova metodologia si avvale dell’importante contributo della psicologia. Questa disciplina impegna la persona ad andare in profondità e a riconoscere tutti gli elementi di cui è composta, sia le energie positive come i lati meno belli. I colloqui pertanto sono l’espressione di una rinnovata mentalità pedagogica che si arricchisce appunto della psicologia per un servizio più efficace e completo verso le persone. Non toglie nulla alla direzione spirituale, piuttosto aggiunge un’attenzione a quanto e come l’inconscio può agire nella persona a volte fino a condizionarne le scelte.
Questa nuova pedagogia intende condurre all’integrazione. Da una parte portare la persona a riconoscere tutti i suoi dinamismi interiori, compresi quelli meno attraenti e più sofferti. Dall’altra renderla comunque capace di camminare da sè dentro il progetto di Dio, mettendo a sua disposizione tutte le proprie energie. La santità deve essere perseguita attraverso l’unificazione di tutta la personalità. I colloqui intendono favorire pertanto non solo l’acquisizione di chiari valori, ma verificano quanto realmente la persona riesce ad «internalizzare», cioè a portare nel concreto della vita quotidiana quei valori.

Differenze tra relazioni interpersonali di aiuto
Questo nuovo tipo di approccio alle persone che stiamo descrivendo preferiamo chiamarlo «accompagnamento» per differenziarlo dagli altri e per sottolinearne le caratteristiche principali.
I colloqui di crescita vocazionale sono:
•    «colloqui», cioè una modalità di accompagnamento centrata sul dialogo interpersonale;
•    «di crescita» nel senso che si intende condurre la persona ad una maturazione integrale, cioè umana e cristiana insieme;
•    l’aggettivo «vocazionale» evidenzia l’aspetto soggettivo del cammino, aperto alla santità in uno specifico e personale progetto di vita.
Partiamo da un confronto con alcune esperienze di relazione allo scopo di farne emergere con maggiore evidenza le differenze.

A) L’accompagnamento non è la relazione tra due amici.
Infatti questa è caratterizzata innanzitutto dalla spontaneità ed assoluta libertà: i due non si sono cercati ne hanno fatto miracoli per diventare amici. Sorta improvvisamente e come per caso la loro relazione si incentra su qualche interesse comune e su una forte carica di simpatia che l'uno esercita sull'altro. Accoglienza ed ascolto facilitano lo svilupparsi di un clima di autentica fiducia vicendevole che consente l'apertura del proprio intimo su temi e situazioni, a volte anche profondi, di vario genere e natura. La relazione non progredisce sulla base di una regolarità di incontri che in effetti possono essere ravvicinati o distanziati nel tempo, di lunga o anche breve durata, solo a volte programmati, ma comunque senza un ordine ed una tabella di marcia. Gli amici non si pongono degli obiettivi verso cui tendere in quanto l'amicizia si evolve da sola e si preoccupa solo di se stessa, cioè non ha nessun altro fine. È un tipo di relazione che non richiede un luogo specifico in cui avvenga l'incontro in quanto può superare qualsiasi tipo di barriera spazio-temporale tramite lettere, telefonate e altro. Come è iniziata, con la stessa spontaneità e libertà la relazione tra due amici può anche dissolversi oppure trasformarsi.

B) L’accompagnamento non è la relazione tra superiore e confratello.
Questo tipo di relazione non nasce spontaneamente, ma si instaura a motivo di una scelta di vita che la comprende. In essa avviene che due confratelli della stessa comunità si trovano in ruoli diversi per un relativo periodo di tempo: uno ha la responsabilità sulla comunità, sulla parrocchia, su un particolare ente o missione e l'altro è un collaboratore. Mentre quindi i due amici sono su un piano di assoluta parità, il superiore si relaziona al confratello aspettandosi rispetto ed obbedienza su eventuali decisioni che possono anche essere non del tutto condivise. Se quindi sul piano della dignità e fraternità si è alla pari, c'è distinzione nel ruolo. Questo comporta che gli incontri non avvengano spontaneamente, ma siano fissati sulla base di regole e necessità richieste dalla responsabilità o dalla missione che si sta portando avanti. Ad es. il mio superiore mi può convocare quando vuole per affidarmi sotto vincolo di obbedienza incarichi o impegni specifici. Si tratta quindi di relazione finalizzata alla missione, che non entra - se non raramente - negli aspetti più personali ed interiori dei due. Essa si incentra più sul versante del fare che dell'essere per cui di solito il superiore comanda, dà indicazioni e il confratello esegue. Una relazione, impostata così, cessa quando termina il mandato di superiore.

C) L’accompagnamento non è la relazione tra medico e paziente.
Qui si ha una persona che ha bisogno di analisi o di cure e che si aspetta un aiuto efficace dallo specialista. La relazione si origina da una necessità concreta che tocca la sfera fisica o anche psicologica e quindi non è spontanea e non coinvolge tutta la persona. L'incontro è centrato sul sintomo, malattia o disagio e non sull’impostazione di vita e la persona si affida al medico con la disponibilità a credere ai risultati della diagnosi e ad eseguire le indicazioni che le verranno impartite. Questo tipo di relazione non coinvolge le due persone sul piano dei loro valori o convinzioni: ciò che più conta è ottenere, il più rapidamente possibile, la salute. Anche qui non c'è parità proprio per il fatto che il paziente cerca una persona competente e preparata a risolvergli il disagio. Gli incontri possono essere lunghi o brevi, ripetuti con una certa frequenza o diradati a seconda del problema in esame. È il problema quindi al centro; superato il quale di solito si vorrebbe non avere più bisogno del medico. Tra i due può esserci confidenza, ma è raro il caso che si raggiunga una notevole profondità di dialogo. Quanto qui detto vale anche per la relazione tra psicoterapeuta e cliente: al centro c'è il disagio della persona che si cerca di risolvere con il contributo di entrambi, ma soprattutto la competenza del terapeuta. È quindi un aiuto dipendente da una necessità imposta per cercare di stare meglio. Anche in questo caso gli incontri sono regolati da un preciso metodo che la persona accetta di fare proprio dando fiducia alla competenza dell'esperto in materia. Mentre si può fare a meno della relazione tra amici, quella con il medico o lo psicoterapeuta non si può evitare se si vuole guarire.

D) L’accompagnamento non è la relazione tra insegnante e studente.
Entriamo così più direttamente sul piano educativo. Questa relazione non nasce spontaneamente, ma si instaura allo scopo di far conseguire certi risultati al giovane. Essa rientra in un contesto specifico che è quello della scuola, là dove l'insegnante cerca di condurre lo studente ad apprendere in vista di una maturazione sul piano culturale e con possibili ripercussioni sull'intera esistenza dell'individuo in crescita. Ciò che interessa in questa relazione è che lo studente apprenda e raggiunga quel traguardo che di anno in anno lo porterà ad una scelta di vita e di professione. Gli incontri sono quelli tipici e quotidiani della scuola, con tutta la classe e solo raramente si trovano insegnanti che si preoccupano dei loro studenti al di fuori. Non ci può essere un rapporto paritario per la inevitabile differenza di età e la stessa impostazione didattica.

E) L’accompagnamento non è la relazione tra confessore e penitente.
In questo caso il penitente si sente colpevole e va dal confessore per essere riconciliato con Dio; egli vede nel sacerdote l'intermediario di Dio che conferisce il perdono a nome di Dio. La relazione quindi si pone su un piano esclusivamente spirituale, di fede senza la quale non sussiste neanche il sacramento. Essendo Dio il vero protagonista in quanto concede il perdono, il sacerdote dovrebbe semplicemente accogliere l'accusa ed assolvere. Per lo più si ferma a facilitare l'accusa e a consigliare. L'obiettivo della relazione è restaurare la grazia nella persona; il sacramento viene vissuto in un incontro e luogo appositi, su richiesta del penitente e senza scadenze prefissate.

Che cos’è l’accompagnamento
Il termine sembra derivare dal latino medievale che nella parola cum-panio riconosceva «colui che ha il pane in comune» per cui accompagnare vuol dire essenzialmente condividere, e condividere qualcosa di vitale come «il pane del cammino», ovvero la propria fede, la memoria di Dio, l’esperienza della lotta, della ricerca, dell’amore di lui… .
Cencini propone una definizione: «L'accompagnamento personale (vocazionale e formativo) è un aiuto temporaneo e strumentale che un fratello maggiore nella fede e nel discepolato dà a un fratello minore, condividendo con lui un tratto di strada, perché questi possa discernere l'azione di Dio su di lui, e decidere di rispondervi, in libertà e responsabilità» .
Questa definizione sottolinea alcune regole ben precise della relazione pedagogica come la temporalità del cammino (la sua durata ha un termine e la guida si deve comunque distaccare), la trattazione di temi di vita vissuta per poter cogliere tutte le sfumature comportamentali e l'elemento della libertà e responsabilità di colui che viene aiutato. In pratica la novità consiste nel metodo, ossia nelle attenzioni e nell’itinerario che la guida propone per rendere responsabile l'accompagnato.
Dalla definizione emergono le due principali e più comuni finalità dell’accompagna-mento:
- guidare la persona nella scoperta dell'azione di Dio sulla propria vita e
- aiutarla a dare una concreta, coerente, libera e responsabile risposta.

Guidare la persona nella scoperta dell'azione di Dio sulla propria vita
Per raggiungere il traguardo della sua vocazione che è la santità occorre che il cristiano impari a scoprire la presenza e l'azione di Dio nella propria vita, apprenda cioè a riconoscere le indicazioni e gli orientamenti che Dio offre attraverso le molteplici e, il più delle volte inaspettate, situazioni di vita nel quotidiano.
«Il consigliere pastorale (come ogni psicologo, anzi ogni uomo) è capace di accettare incondizionatamente le disposizioni psicologiche o i bisogni affettivi della persona. Ma, proprio nella misura in cui egli le ascolta e le comprende nella loro prospettiva religiosa, percepisce nello stesso tempo la distanza tra questi desideri e quelli che lo Spirito del Signore gli fa avvertire leggendo il Vangelo: la legge non salva; il perdono è sempre offerto; la zizzania rimane a lungo mescolata con il buon grano; non la pace, bensì la spada della lotta per i diritti dei poveri; chi è mio padre, mia madre o i miei fratelli se non coloro che costruiscono il Regno della nuova alleanza? L'intervallo così percepito tra certi desideri, anche religiosi, e altri desideri o altre pratiche evangeliche apre uno spazio cristiano per il consiglio propriamente pastorale: un invito ad analizzare la richiesta, ad approfondire il desiderio e a confrontarli con lo Spirito». A. Godin, “Ascolto e consiglio”, in AA.VV., Iniziazione alla pratica della teologia (a cura di B. Lauret e J. Refoulé), Vol. V: Pratica, Queriniana, Brescia, 1986, p. 66.

L’accompagnamento facilita l'acquisizione di un metodo che abiliti il cristiano a guardare la sua realtà con gli occhi della fede. Egli viene sollecitato a riconoscere la bontà di Dio dentro le pieghe della propria storia e quindi a scoprire che la fede o è concreta oppure non è fede autentica. O la fede permea ogni situazione della propria vita o si tratta di una sovrastruttura. Il fratello che si pone accanto media perché non ci sia schizofrenia tra fede e vita.
L'opera di mediazione non si ispira ai gusti personali dell’accompagnatore, ma alla mentalità proposta dalla Parola di Dio. È paragonandosi con essa che si costruisce la propria autentica identità e si scopre il progetto di Dio sulla propria esistenza. L’accompagnatore allora conduce al riconoscimento della verità di se stessi a partire dal far emergere quel filo conduttore che lega fatti e circostanze forse in sè banali e apparentemente giustapposti e, una volta colto, armonizzare quel filo alla Parola. Il giovane rivela di essere maturato quando non addebita tutto al caso, ma coglie le connessioni (e divergenze) fra proprio stile di vita e azione di Dio che in essa si media. A questa condizione egli è ben avviato sul cammino del discernimento.
Sappiamo che la crescita cristiana consiste nel mettere al centro della vita il valore «Gesù Cristo» e ciò vuol dire che questo valore è autodefinitorio: la mia relazione con Dio definisce la mia identità. Non sono le qualità fisiche a darmi identità, ma il mio essere creato ad immagine di Dio. Allora il problema vero di tanti cristiani e giovani è quello della centralità della fede, ossia quanto essa entra o meno nella definizione di sè, nella risposta al «chi sono». L’accompagnamento pertanto diventa soprattutto per i giovani il luogo della costruzione della propria identità secondo il dato rivelato. L'autentica crescita cristiana si misura nella capacità di assimilare il dato rivelato e usarlo come griglia di lettura, come modo di interpretare la vita di tutti i giorni.

Aiutare la persona a dare una concreta, coerente, libera e responsabile risposta
Proprio non basterebbe che il fratello maggiore aiuti a riconoscere l'azione e gli appelli di Dio nella vita se poi chi a ciò è avviato non è anche aiutato a rispondere a Dio... L'autentico accompagnamento verifica che la persona non solo scopra determinati valori come belli, attraenti e li ritenga fondamentali per la propria esistenza, ma poi si adoperi per «internalizzarli», cioè per farli propri vivendoli, mettendoli in pratica.
Come educatori non possiamo formare i giovani limitandoci ad offrire loro in varie occasioni e contesti di gruppo valori vocazionali quali la comunione con Dio e l'imitazione di Cristo per quanto appetibili e stimolanti essi siano, ma dobbiamo altresì preoccuparci che tali valori si incarnino realmente nella loro vita, cioè diventino convinzioni proprie a tal punto da trasformare lentamente la loro esistenza. I valori devono toccare e muovere tutti i dinamismi della personalità verso quell'unificazione interiore che è il traguardo di ogni cammino di conversione e di santità. E come è vero che tutti dobbiamo tendere alla santità, è altrettanto vero che ognuno lo fa secondo una propria disposizione e modalità per cui l’accompagnatore è attento a far sì che il cammino sia personalizzato.
Non solo. La risposta, oltre che concreta e reale, deve essere libera e responsabile, non forzata né imposta. La guida in tal senso non si deve lasciar prendere dalla tentazione del tutto e subito. Non deve offrire soluzioni prefabbricate e immediate, ma lasciare che sia il singolo a costruirsi da sè nella totalità della propria libertà. Pertanto l'intento dell’accompagnatore sarà quello di educare al «come impostare» la vita, al «come» fare, prima che al «che cosa» fare. Il contesto quindi per un opportuno accompagnamento sarà un contesto di libertà nel quale è veramente l'accompagnato che prende le decisioni in fedeltà ed armonia con i valori del proprio progetto di vita. Sforzo della guida sarà quello di stimolare ad un continuo confronto tra valori e vita vissuta, tra valori e bisogni, tra valori proclamati e tendenze a volte inconsce che portano la persona a confondere bene reale con bene apparente. Ad es. la disponibilità ad aiutare gli altri è un importante valore, ma come può essere vissuto? Nella situazione concreta può servire a sentirsi qualcuno, a ottenere consenso e approvazione contro una scarsa stima di se stessi…. Quello che è proclamato come valore svolge una funzione difensiva nella psicodinamica della persona. In quel caso la disponibilità verso gli altri è solo un bene apparente, ma non reale, cioè tale da spingere la persona al di là di sé verso l’autotrascendenza teocentrica.

Competenza, metodologia e antropologia sottostante
Per raggiungere gli obiettivi che il dialogo pedagogico si propone all’interno dell’accompa-gnamento occorre che la guida acquisisca una particolare competenza e respiri all’interno di una precisa antropologia o visione dell’uomo.
La competenza è data innanzitutto dalla preparazione personale dell’accompagnatore come capacità di gestire se stessi nell’ambito dei sentimenti e delle inevitabili inconsistenze della natura umana. In secondo luogo la competenza porterà alla valorizzazione di un particolare modello operativo: quello della identificazione proiettiva inteso non tanto come meccanismo difensivo o stile comunicativo, ma soprattutto come mezzo di cambiamento . L’identificazione proiettiva può essere definita come quel processo mediante il quale il soggetto si libera di aspetti importanti del proprio io «depositandoli» (cioè proiettandoli) sull’accompagnatore, per poi riappropriarsi di ciò di cui si era liberato, ma in versione modificata, cioè corretta ed evangelizzata dall’accompagnatore . Tre sono le fasi in cui si articola il meccanismo di cambiamento: la proiezione di uno, la rielaborazione dell’altro e la riappropriazione del primo . Per sostenere tale opera educativa l’accompagnatore dovrà funzionare dapprima come schermo di proiezione accogliendo la realtà dell’altro, ma soprattutto dovrà poi rielaborare quella realtà alla luce di criteri oggettivi (i valori dell’altrui progetto di vita) e provocare il soggetto a riappropriarsene identificandosi con il suo nuovo dover essere.
Ciò che viene proiettato non sono solo buone intenzioni e grandi aspirazioni che fungono da ideali regolatori delle proprie scelte, ma anche ferite, bisogni e dinamismi emotivi, residui per lo più di un passato e di una storia personale che reclamano gratificazione e che assorbono grandi energie. Le scienze umane ci confermano che non esiste libertà totale verso la virtù o all’opposto soltanto patologia nella nostra personalità. Piuttosto la libertà personale è sempre limitata in ordine al perseguimento degli scopi esistenziali da fattori più o meno conosciuti all’individuo stesso. Saper riconoscere e trattare anche questi ultimi significa prendere sul serio, fino in fondo, la convinzione che è la verità a renderci liberi e che per crescere in modo integrato abbiamo da imparare a ben gestire ogni dinamismo della nostra personalità. La conoscenza e l’uso di questo meccanismo di cambiamento la dobbiamo alla psicologia. Diversamente si corre il rischio di scindere il corpo dallo spirito oppure si impostano scambi pedagogici che «evocano l'immagine di una conferenza spirituale sul terrazzo di casa, mentre ai piani inferiori gli inquilini (le emozioni e i bisogni) si confrontano o si scontrano su problemi di ordine ben diverso, più pragmatico o mondano e pur tuttavia importanti e forse indispensabili per la vita» .
I CCV cercano quindi di far acquisire alla persona una maggiore padronanza su se stessa passando attraverso l’esplorazione anche delle aree meno accettabili, ma non per questo meno forti ed incisive nel quadro psicodinamico della personalità. Per tale operazione c’è bisogno di tempi di incontro ravvicinati e di un dialogo sincero, centrato sulla fiducia e la responsabilità.
Questo tipo di pedagogia deriva da una chiara visione antropologica cristiana che esplorando le possibili convergenze ma non confusioni di teologia, filosofia e psicologia considera l’uomo una creatura sublime, opera del Creatore di ogni cosa, capace di grandi slanci e di amare alla maniera di Gesù, ma insieme fragile e vulnerabile, piuttosto incerta e tentata di chiudersi amando in modo egoistico . È chiaro che dove la grazia di Dio trova una natura umana predisposta a crescere nella conoscenza e padronanza di sé potrà agire più efficacemente e portare più frutti di santità e di bene.
Sponsorizzato dall’Istituto di Psicologia della Gregoriana da qualche decennio opera in Italia anche l’Istituto Superiore per formatori, denominato prima «Scuola per educatori» e più comunemente detta «scuola estiva» a motivo della concentrazione dei corsi di formazione proprio nei mesi estivi. A partire dall’apprendimento dell’antropologia della vocazione cristiana, nell’arco di 4 anni tale Istituto prepara formatori e formatrici che sappiano avvalersi con sapienza della pedagogia dell’integrazione nell’accompagnamento personale e nei molteplici ruoli formativi o servizi apostolici.