Il prete, il denaro, la povertà


Stefano Guarinelli

Il paradigma del "nome dato"

La prima cosa che si fa generalmente in una famiglia quando nasce un bambino è di trovargli un nome. Il nome "dato" costituisce un primo tratto dell'identità di quel nuovo individuo. Non l'unico, evidentemente. Eppure, la scelta del nome costituisce un paradigma dell'identità che, seppure con contenuti differenti, tenderà a ripetersi più o meno efficacemente per tutto lo sviluppo di quella persona. Si badi: non la realtà, statica, del "nome", ma quella, dinamica, del "nome dato". Non è la stessa cosa, infatti, "avere un nome" e "essere chiamati per nome". L'identità, intesa in senso psicologico, non è un concetto, ma un'esperienza.
Quello dell'identità è uno dei compiti evolutivi più importanti della persona umana o, addirittura, il compito evolutivo per eccellenza della persona umana: identificarsi ed essere identificato. Alcuni autori, come la Mahler, specificano ulteriormente gli elementi dell'identità, contenutizzandoli secondo il processo, assai noto, della separazione e dell'individuazione. Un tale processo può essere esteso efficacemente a tutta la vicenda dello sviluppo umano.
Separarsi significa che in ogni situazione il soggetto è chiamato a riconoscere di non essere un tutt'uno con l'ambito a cui, magari pure positivamente, appartiene. L'ambito in questo caso può essere la relazione che egli ha con un'altra persona, la propria appartenenza ad un nucleo familiare o genericamente ad un gruppo o ad una comunità.
Individuarsi significa che in ogni situazione il soggetto è chiamato ad esibire un insieme di tratti che gli consentono di mostrare (agli altri ma soprattutto a se stesso) di essere "questo" e non "quello", di essere in questo modo e non in quest'altro.
Nel senso comune, quando ci si intende riferire alla "misura" di un'esistenza riuscita, sovente viene chiamata in causa l'esperienza affettiva: la qualità di un'esistenza sarebbe legata alla qualità delle relazioni affettive avute. È fuori discussione che l'esperienza dell'essere amati e del sentirsi amati sia decisiva in tal senso. Eppure ciò non può avvenire "ad ogni condizione". Non è detto, infatti, che l'esperienza affettiva sia rispettosa della domanda di identità. E questa non è per niente secondaria rispetto a quella. A meno di intendere, come dovrebbe realmente essere, l'esperienza dell'amore dell'altro come l'esperienza del prendersi cura dell'identità dell'altro.
L'identità come esperienza, dinamica e non come "cosa" statica è dunque una sorta di compito da eseguire in ogni situazione. E ogni situazione, in modi sempre diversi e originali, rappresenta una sfida all'identità, più o meno consistente. L'esecuzione corretta dei due compiti, diversi ma intrecciati, della separazione e dell'individuazione offre al soggetto in ogni situazione un'identità più o meno stabile, capace, cioè, di non fargli sperimentare ansia, disagio o quant'altro.


Lo sviluppo come ricerca delle risorse

La vicenda dello sviluppo di ogni singola persona potrebbe essere raccontata a partire dalla ricerca delle risorse che quella persona ha messo in atto, appunto, per individuarsi e per separarsi. Quando una persona nasce, le si dà un nome. Il nome è un'istanza che individua; ma non sempre nel concreto si è chiamati per nome. Si tratta, dunque, di un elemento importante, ma assolutamente insufficiente. Ne occorrono altri; forse perfino parecchi. Così, se ad un figlio unico ad un certo momento viene ad aggiungersi un fratello, il fatto che al nuovo arrivato venga assegnato un nome diverso è cosa scontata, ma oltremodo importante. Eppure, presto o tardi, si rivelerà risorsa insufficiente. Occorrerà che i due, in modi proporzionati all'età, al grado di sviluppo di ciascuno e al tipo di accudimento ricevuto, siano in grado di dotarsi di risorse supplementari. Ad esempio: se il fratello maggiore fosse bravo a scuola, quello minore potrebbe "scegliere" di comportarsi un po' da "pecora nera". Come a dire: se io gioco a calcio e tu a tennis, non possiamo competere sullo stesso terreno di gioco. Io sono quello che gioca a calcio e tu sei quello che gioca a tennis. Se, invece, tutti e due giochiamo a calcio, ci sarà inevitabilmente uno dei due che gioca almeno un po' meglio dell'altro e... per l'altro quella risorsa per l'individuazione potrebbe non andare più bene. Un processo non molto diverso da questo potrà essere all'opera in quella comunità religiosa in cui al professo, laureato in Lettere, si aggiunge un postulante, anch'egli laureato in Lettere e magari con una valutazione più elevata. Il primo, che si individuava recitando volentieri la parte dell'intellettuale della comunità, si trova ora a riconoscere che il nuovo arrivato ne sa più di lui. Che farà? Potrà fare molte cose: allearsi con lui, svalutarlo, chiamarlo "recluta" o "matricola", e altro ancora. Si tratterà di giungere ad una nuova situazione di equilibrio, che difficilmente potrà essere prevista in partenza, giacché si parla di persone e non di processi meccanici. Difficilmente, però, non accadrà "nulla". A meno che quello della laurea non sia elemento di individuazione né per il religioso professo, né per il nuovo arrivato.
Da questi semplici esempi si può subito intravedere la tendenza della persona ad importare risorse dall'esterno. Sarebbe come dire: per individuarmi, ciò che sono nel presente deve essere costantemente incrementato assumendo "cose" dal di fuori. Il mio nome non è "mio" fintantoché non mi viene dato. A quel punto diventa parte di quell'identità che si attiva in ogni esperienza in cui quel nome viene evocato, appunto, perché "mio". Anche in questo caso il paradigma del "nome dato" (o quello dell'"essere chiamati per nome") riproduce il rapporto con quelle cose che, riconosciute come possibili risorse per l'individuazione, tendono pian piano ad assumere la funzione di estensioni della persona o di veri e propri attributi della personalità.
In questo discorso, una parte importante è riservata a quella specificazione della nozione di identità che è la stima di sé (o autostima). Potremmo dire che la stima di sé corrisponde all'esperienza dell'identità "buona". Avere un nome diverso e avere un "bel" nome diverso sono esperienze identiche dal punto di vista dell'individuazione che garantiscono, ma non della qualità di una tale individuazione. La qualità dell'individuazione raggiunta dipende dal soggetto, nell'interazione con l'ambiente in cui vive. Non esiste, cioè, una stima di sé "oggettiva": ciò che è qualitativamente significativo per il soggetto è "scelto" dal soggetto.
L'identità "buona", dunque, ha bisogno di cose "buone" per svolgere bene il suo compito. Un titolo di studio o un'onorificenza si prestano ad assumere la funzione di estensioni della persona, o di attributi della personalità. La stessa funzione può essere svolta, però, anche dal possesso di un oggetto di un certo tipo e magari di un certo valore: un'automobile, un orologio, un appartamento, una camicia griffata, o altro ancora. Vestire in un certo modo o avere un auto di un certo tipo non hanno un valore funzionale, nel senso che rendono la vita in qualche misura più pratica. Anzi, può accadere perfino il contrario. Possono aiutare, però, a identificarsi, appunto: ad assumere cioè un elemento, un tratto di identità che aiuta colui che vive l'esperienza "dal di dentro" a sentirsi meglio, con se stesso e con gli altri. Questo non significa che ogni volta che si acquista o anche solo desidera un oggetto di un certo tipo sia in gioco un processo che coinvolge l'identità. Il coinvolgimento dell'identità appartiene a qualcosa di molto più profondo e, sovente, non del tutto consapevole o, addirittura, fortemente inconsapevole. La differenza fra l'oggetto bello, ma in fondo indipendente da me, e l'oggetto estensione di me, può essere rilevata soggettivamente dal grado di investimento emotivo che li coinvolge e, se si tratta di oggetti che hanno originariamente uno scopo, dal grado di offuscamento dell'aspetto funzionale ad opera di quello simbolico. Se curo ossessivamente la mia automobile e temo che possa graffiarsi o perfino sporcarsi, al punto che non la uso neppure più, è assai probabile che sia in gioco una dinamica del tipo accennato. Oltre al coinvolgimento emotivo si noti il passaggio in secondo piano dell'aspetto strumentale del bene, giacché le auto dovrebbero servire per spostarsi e non per stare in vetrina.


Povertà funzionale e povertà simbolica

Dobbiamo perciò parlare di un aspetto funzionale (o strumentale) dei beni e di un aspetto simbolico. Mi sembra importante mettere a fuoco questa differenza.
Non è troppo difficile considerare i "costi e i benefici" di un bene funzionale. Dunque non sembra complicato ragionare di povertà a partire dal rapporto (di possesso, utilizzo o rinuncia) con un bene inteso dal punto di vista funzionale. Un religioso, in modo particolare, ma anche un sacerdote diocesano, sanno molto bene che la loro scelta di vita dovrebbe comportare uno stile sobrio e la rinuncia ad un certo numero di comodità. Questa povertà, associata all'aspetto funzionale dei beni, non è posta in discussione, generalmente, da un religioso o da una religiosa; qualche prete diocesano, invero, potrebbe mostrarsi un po' schizzinoso di fronte al termine "povertà", ma probabilmente (almeno nelle intenzioni) sarà disposto a collocarsi nella prospettiva di una certa sobrietà.
A mio parere accade, però, che la povertà e la sobrietà associate all'aspetto simbolico dei beni non siano focalizzate allo stesso modo. In modo particolare, proprio perché il prete diocesano dispone di una certa autonomia economica, questo discorso vale soprattutto per lui.
In altre parole: il prete diocesano, oggi, pur accogliendo e magari perfino desiderando uno stile di vita povero, o sobrio, o essenziale, può faticare realmente ad essere povero, sobrio ed essenziale. E non è del tutto colpa sua. È "tutta colpa" del benessere? Il benessere eventualmente favorisce la possibilità che ai propri desideri sia data una risposta concreta. Non tutto, però, è giustificabile a partire dal solo incremento del benessere. Certo alle comodità, come a tutti i privilegi acquisiti, si rinuncia con difficoltà. Eppure, ad un esame più attento, ci accorgiamo che non tutto ciò che investe la difficoltà ad essere poveri o essenziali, può essere ricondotto alla questione delle comodità o dei privilegi.
Si pensi, ad esempio, al piacere di vestire griffato o alla ricerca di un marchio famoso. Il prestigio di un marchio, in origine, si legava alla qualità del prodotto. Eppure, è risaputo che per molti prodotti la sola apposizione del marchio ne eleva il prezzo, senza che la qualità sia necessariamente implicata. È talmente vero questo, che esistono aziende che fabbricano lo stesso identico prodotto vendendolo a due prezzi significativamente diversi a seconda che sia successivamente "marchiato" oppure no; così come esistono aziende che si dedicano a fabbricare un prodotto identico a quello griffato, identico anche nel marchio (evidentemente contraffatto), commercializzandolo successivamente ad un prezzo cospicuamente inferiore a quello dell'originale. Se un coccodrillo di stoffa cucito su una polo ha il significato di segnalare che quella polo è di grande qualità, a rigor di logica nessuno dovrebbe comperare una polo contraffatta, giacché, a quel punto, il coccodrillo non significherebbe un bel niente. Invece sembra che più che la polo sia quasi il coccodrillo ad essere acquistato, indipendentemente da tutto il resto.
In nome di una solidarietà, ad esempio, con chi realmente è povero, il prete può chiedere a se stesso di rinunciare a qualche comodità, a qualche bene funzionale. Non è difficile individuare quale possa essere il costo di una tale rinuncia: avere un auto più piccola e meno accessoriata; avere un arredamento più essenziale e un po' meno confortevole; vestire in modo semplice e meno ricercato; fare vacanze più brevi e meno costose... È abbastanza facile individuare in che cosa consista la rinuncia ad una comodità o ad un privilegio, quando è in gioco l'aspetto funzionale di un bene.
Posso realmente dire la stessa cosa quando, invece, è in gioco l'aspetto simbolico di un bene? Se non posso permettermi l'auto veloce, significa che andrò più piano. Se non posso permettermi l'auto grossa, significa che starò più stretto. Se non posso permettermi l'auto con il navigatore satellitare, significa che ogni tanto dovrò fermarmi a guardare la carta stradale o chiedere a qualcuno. Se, però, l'auto è bene simbolico, e non solo funzionale, a che cosa rinuncio se non ce l'ho? A che cosa rinuncio se acquisto una polo senza coccodrillo, se indosso un orologio di quelli che ti danno con i bollini della benzina, se ho un impianto stereo vecchio di vent'anni (e neppure ascolto la musica). La risposta dovrebbe essere che non solo non rinuncio a niente, ma che, anzi, uno stile di vita così mi fa perfino risparmiare.
In realtà, non è detto che gli stili di vita di un prete viaggino oggi sempre in questa direzione; e questo, sia detto, al di là delle buone (e sincere) intenzioni.
Dunque sembra che la risposta richieda qualche riflessione in più.


Il denaro e la sua plasticità simbolica

Ritengo che gli spazi di riflessione in merito siano, da un lato, precisamente l'elemento simbolico dei beni e, dall'altro, il peso, assai più consistente che in passato, che la nostra cultura assegna ai simboli (e quindi ai beni), così che diventa più faticoso prescinderne, proprio in una logica di sviluppo, dell'identità e della stima di sé.
Di tutti i beni materiali il denaro si presenta come il più appetibile perché si tratta del bene più facilmente alienabile. Già Dostojevski affermava che «La moneta è libertà coniata» . Non è difficile cogliere il passaggio dall'aspetto funzionale del denaro a quello simbolico: è come se nell'accumulo di denaro si assommassero il maggior numero di simbolizzazioni possibili, esattamente perché il denaro può accedere a tutte. In particolare, Furnham e Argyle raccolgono quattro istanze psicologiche di cui il denaro rappresenterebbe la simbolizzazione finale .


La sicurezza


Una prima istanza è la sicurezza. Trattandosi di un'istanza psicologica, essa attraversa strati via via più profondi della personalità. Così, se da un lato sembra abbastanza ovvio che i soldi diano una certa garanzia di sicurezza rispetto ai molti imprevisti della vita, ad un livello più profondo la ricerca della sicurezza, ad esempio nell'accumulo di denaro, può essere l'esito quasi compulsivo di un bisogno di sicurezza che ha le proprie radici da tutt'altra parte. La ricerca di sicurezza compulsiva nell'accumulo di denaro si differenzia da un'oculatezza nell'amministrazione del proprio patrimonio, piccolo o grande che sia, precisamente nella funzione simbolica del denaro dell'un caso rispetto all'altro. L'ansietà di una deprivazione passata che circostanze presenti più o meno analoghe possono riattivare, viene controllata nel simbolo "denaro". Il simbolo, non potendo essere risolutivo rispetto al conflitto passato, rappresenta soltanto una soluzione parziale del problema, e dunque chiede di essere reiterato: da ciò scatta la compulsione. Questo è un processo frequente: la gratificazione di qualche bisogno, soprattutto se appartiene al passato, tende piuttosto al suo rinforzo anziché alla sua estinzione. Così se l'insicurezza presente, in realtà, contiene al suo interno la risonanza di insicurezze passate mai del tutto superate, l'uso di simboli non risolutori, come il denaro, tende a rinforzare la domanda e non, come si crederebbe, a sopirla. Con il risultato che la ricerca di una risposta diviene quasi un'ossessione.
Goldberg e Lewis articolano in diverse tipologie caratteriali questa ricerca di sicurezza attraverso il denaro: "il risparmiatore compulsivo" (the Compulsive Saver), "l'immolatore" (the Self-denier), "il cacciatore compulsivo dell'affare" (the Compulsive Bargain Hunter), "il collezionista fanatico" (the Fanatical Collector). Il risparmiatore compulsivo è colui che semplicemente accumula. L'immolatore è quel risparmiatore che impone a se stesso una sorta di ascetica povertà, ma che talora è generoso o anche generosissimo con gli altri, in fondo forse per accentuare, un po' vittimisticamente, il fatto che non fa nulla per se stesso. Il cacciatore compulsivo dell'affare, invece, accumula in attesa di spendere all'occasione più propizia con lo scopo di mostrarsi più furbo degli altri; così, accumulando sembra tirchio, ma poi magari compera il suo quarto costosissimo orologio da polso, assolutamente inutile, perché l'ha trovato al venti per cento di sconto. Infine il collezionista fanatico accumula ossessivamente oggetti, talora assolutamente privi di valore, e fa molta fatica a disfarsi delle proprie cose, anche se ormai inutili.
Al di là delle specifiche modalità di trattare il simbolo nelle diverse tipologie, sottostante si cela la medesima forma compulsiva che tende all'accumulo.


Il potere


Una seconda istanza è il potere. Anche in questo caso assistiamo a quella stratificazione già rilevata a proposito della sicurezza. Il fatto che avere più denaro significhi avere più potere è materia da rotocalco o da telenovela. Dal punto di vista psicologico, però, anche in questo caso il potere può essere illusoriamente esercitato a difesa dalle ansietà derivanti dallo sviluppo, oppure da ciò che dello sviluppo passato risuona in un fatto presente. In questo senso sono abbastanza evidenti le connessioni con l'istanza della sicurezza. Infatti il potere costituisce una forma di controllo della realtà (del mondo e degli altri) là dove questa è percepita come inaffidabile; ma può rappresentare anche il modo di acquisire importanza agli occhi degli altri e di se stessi. Si può constatare come, anche in questi casi, si tratti al fondo pur sempre di ferite alla stima di sé o di forme estreme di insicurezza.
Goldberg e Lewis raccolgono tre tipologie di personalità connesse con la simbolizzazione del potere nel denaro: "il manipolatore" (the Manipulator), "il costruttore di imperi" (the Empire Builder), "il padrino" (the Godfather). Il manipolatore è colui che utilizza il denaro facendo leva sulla vanità o sull'avidità delle altre persone, per sentirsi meno solo, ma gratifica gli altri per gratificare se stesso e dunque usa le altre persone. Il costruttore di imperi invece cerca di rendere gli altri dipendenti da sé, mediante l'utilizzo del denaro, ma in questo modo egli nega o nasconde il proprio bisogno di dipendenza affettiva, nonostante all'apparenza sia indipendente e fiducioso delle iniziative che intraprende. Il padrino, infine, "compra" e controlla le altre persone con il denaro, al fine di sentirsi dominante e di nascondere o negare soprattutto un'insicurezza connessa con il timore di essere umiliato e, spesso simultaneamente, una buona dose di aggressività, più o meno consapevole.


L'amore


Una terza istanza è l'amore: il denaro può essere dato come sostitutivo dell'affetto. In un certo senso l'amore dell'altro può essere comperato con il denaro e, dunque, possedere del denaro può divenire il simbolo di una scorta sempre disponibile di affetto da consumare. In questo caso l'affetto può assumere nel concreto forme differenti: oltre ad acquistare l'amore in senso stretto, tramite il denaro ci si può accaparrare la lealtà di un altro, oppure la sua deferenza. Anche in questo caso Goldberg e Lewis individuano alcune tipologie caratteristiche di questa istanza: "il compratore d'amore" (the Love Buyer), "il venditore d'amore" (the Love Seller), "il ladro d'amore" (the Love Stealer). I compratori d'amore utilizzano il denaro per acquistare affetto e rispetto da parte degli altri. Al di sotto di queste richieste abita un mondo più o meno consapevole di insicurezza e bassa stima di sé che si radicano su sentimenti connessi con il timore di non essere amati o di non essere stati amati, oppure con l'esperienza di essere stati rifiutati e con la paura che esperienze analoghe si ripresentino. I venditori d'amore invece promettono amore, stima e devozione, tramite il denaro, soprattutto nei confronti di persone che a loro volta hanno bisogno di amore, stima e devozione e che, dunque, appartengono facilmente alla categoria dei compratori d'amore. Infine i ladri d'amore, fra i quali vengono annoverati i cleptomani, rubano denaro o oggetti per il valore simbolico che questi hanno in ordine ad un affetto che invece non riescono ad avere o del quale non si sentono degni, spesso in modo inconsapevole.


La libertà


La quarta istanza è la libertà: si tratta probabilmente del significato più visibilmente associato al denaro. Il denaro infatti consente di "comperare" il tempo per coltivare i propri interessi e gusti. Consente così di prescindere da quella routine da cui talora si è costretti, vivendo una vita sottoposta ai ritmi di un lavoro stipendiato. Anche per questa istanza Goldberg e Lewis individuano delle tipologie di personalità. In questo caso sono due: "i compratori di libertà" (the Freedom Buyers) e "i lottatori per la libertà" (the Freedom Fighters). I compratori di libertà utilizzano il denaro perché questo li persuade di potersi sottrarre ad una vita fatta di ordini, indicazioni a cui sottostare, da parte di terzi, diventando in questo modo più autonomi. I lottatori per la libertà, invece, apparentemente non utilizzano il simbolo del denaro e dunque non sarebbero da collocare in questa suddivisione. Essi rifiutano il denaro ed il materialismo in generale, attribuendovi la riduzione in schiavitù dell'uomo contemporaneo. Eppure, secondo Goldberg e Lewis, in profondità, queste persone combattono contro sentimenti propri, che rifiutano, che li attraggono invece verso la ricerca di sicurezze, precisamente attraverso quelle simbolizzazioni che apparentemente respingono con forza.


Un passaggio epocale

Abbiamo accennato alla capacità dei beni, e del denaro in modo particolare, di simbolizzare vulnerabilità evolutive. Proviamo a domandarci ora: si può dire realmente che il nostro tempo sia significativamente affamato di simboli che si prestano a veicolare istanze emozionali?
Innanzitutto dobbiamo riconoscere l'esistenza di una causalità circolare fra il repertorio dei simboli offerti da una cultura e i processi di sviluppo del singolo individuo. A partire da questa considerazioni iniziale, scelgo un dato emblematico, che proviene dalla pratica clinica.
Negli anni '60 iniziò a svilupparsi una riflessione notevole su alcuni disturbi della personalità che non potevano essere adeguatamente interpretati ricorrendo alla strumentazione diagnostica e terapeutica allora disponibile e che postulavano, invece, un modo diverso di intendere l'organizzazione dell'io. Entrarono così in scena i cosiddetti stati limite (o borderline), che tanta diffusione hanno oggi nella pratica clinica e psicoterapeutica.
Gli aspetti strettamente psicopatologici qui non ci interessano. Ciò che mi sembra di grande rilievo per il nostro tema è un fatto: a partire dagli studi di Kernberg, si può constatare il profondo legame sussistente fra la struttura borderline della personalità e i processi di costruzione dell'identità. Si tratta, in modo particolare, di quei processi che sono posti a fondamento di tutto il lungo percorso di costruzione dell'identità e che, perciò, coinvolgono, almeno in un senso statistico, i primi anni di vita del bambino.
Ciò è come dire: sembra che la nostra cultura occidentale intervenga in modo significativo a "disturbare" ciò che è a fondamento dei processi di costruzione dell'identità individuale.
Che cosa? E in che modo? Evidentemente il tema meriterebbe approfondimenti distesi.
In ogni caso, l'universo delle istanze coinvolte sembra riguardare in primo luogo le modalità di accudimento e dunque, in cascata, la relazione genitori-bambino, il ruolo materno e quello paterno, i processi di socializzazione, lo sviluppo della competenza e della regolazione emozionale, e via dicendo.
Nel nostro ambiente culturale occidentale sembra, dunque, che accada "qualcosa", che probabilmente in passato accadeva di meno o perlomeno in modo meno significativo, che va ad interferire significativamente con la vita del bambino nei suoi primi anni di vita.
Semplificando di parecchio la questione, si potrebbe dire che la deriva verso il disturbo borderline è connessa con gli aspetti quantitativi di quel "qualcosa". Da un punto di vista qualitativo, invece, e nella logica di una certa continuità ritrovabile fra la normalità e la patologia, una maggiore vulnerabilità è riscontrabile in modo più complessivo nella popolazione, anche senza che si giunga necessariamente ad un esito psicopatologico. In altre parole: la diffusione dei borderline rappresenta la deriva psicopatologica di un vissuto epocale che in qualche misura riguarda tutte le giovani generazioni.
Trattandosi di stadi molto precoci, appare con evidenza il primato dei processi prevalentemente emozionali rispetto a quelli prevalentemente intellettuali (linguaggio, valutazione morale, ecc...). E questo significa che la ricerca dei simboli che possono intervenire a colmare le diverse vulnerabilità non può che risentire di un tale primato. Il simbolo, per essere efficace, dovrà obbedire in qualche misura alle "leggi" dell'emozione, che sono, fondamentalmente: la gratificazione immediata; il forte ripiegamento del soggetto su se stesso; la scarsa considerazione dell'elemento morale.
È importante richiamare la questione accennata della causalità circolare fra la personalità individuale e il repertorio simbolico offerto dalla cultura. È fuori discussione, infatti, che vi siano soggetti, e forse perfino molti, che non hanno vissuto alcun travaglio problematico nell'attraversamento di quegli stadi precoci di costruzione delle fondamenta dell'identità. Il fatto che, tuttavia, molti altri abbiano fatto fatica in quegli stessi stadi, ha finito per condurre la cultura a sviluppare consistentemente la questione dei simboli. Si è giunti, in tal modo, ad un condizionamento dei singoli, proponendo o imponendo quei simboli come "luoghi" dell'identificazione. E ciò è valso, e vale, anche per coloro che non ne avrebbero avuto bisogno.
È il risultato dell'eterna interazione fra natura e cultura alla quale nessuno può sottrarsi, nemmeno quando i simboli della propria cultura li contesta.


Oggi è più difficile essere poveri

Oggi, dunque, sembra che per tutti noi sia più difficile essere poveri che in passato. Questo stato di cose vale sia per quella povertà che abbiamo denominato funzionale, sia per quella che abbiamo denominato simbolica.
Probabilmente, come dicevo in apertura, non facciamo troppa fatica a riconoscere in che cosa consista la povertà relativa al valore funzionale dei beni. La nostra generazione e quelle dopo di noi sono cresciute avendo a portata di mano alcuni beni che fatichiamo parecchio a considerare superflui. Alcune risposte provocatorie nei confronti di questo tipo di povertà, tuttavia, sono realmente profetiche, oppure possono contenere al loro interno una carica simbolica del tutto simile alla valenza simbolica dei beni dalla quale ci si intende distanziare? Nel rifiuto di certi mezzi rendiamo il nostro annuncio evangelico più essenziale, oppure lo presentiamo alla stregua di una cosa di altri tempi, che non c'entra con l'uomo contemporaneo, le sue domande e le sue fatiche? La libertà da alcuni beni è vera libertà evangelica o rappresenta l'esito perfino comodo di una deresponsabilizzazione adolescenziale? Non è facile rispondere; si rischierebbe di generalizzare inopportunamente. Eppure si tratta di capitoli che andrebbero tematizzati, all'interno di un percorso di discernimento, individuale o comunitario.
In ogni caso ritengo sia precisamente la povertà relativa al valore simbolico dei beni la realtà più difficile da riconoscere, proprio nelle sue radici soggettive, in quei processi che non possono valere per tutti in modo generico, ma che valgono per ciascuno in modo originale e specifico. Investe infatti quella conoscenza di se stessi e delle proprie domande aperte, delle proprie insicurezze, delle proprie ferite all'identità o all'autostima, che possono non essere state tematizzate nel corso della formazione o degli anni di ministero.
La povertà relativa al valore simbolico dei beni oggi può essere riconosciuta con fatica perché più forti sono le resistenze a smascherare le molte illusioni con cui si rammendano le ferite all'identità personale. Di questi tempi il sacerdozio ministeriale fatica assai più che in passato ad assegnare ad un prete un'identità che sia chiara (per l'individuazione) e che sia allo stesso tempo "buona" (per l'autostima). In questa direzione mi pare non debbano stupire più di tanto alcuni ritorni, apparentemente un po' anacronistici, verso un ministero che sembra molto attento a recuperare alcuni simboli esteriori, talora perfino un po' superati. Non casualmente questo fenomeno sembra colpire alcuni paesi europei di antica cristianità i quali vivono, però, nel presente, una profonda scristianizzazione. Simmetricamente, alcune forme opposte, esasperate, di rifiuto dei simboli e dei riti tradizionali, corrispondono al medesimo dinamismo, pur apparendo del tutto contrari.


Conclusioni

Mi pare che il percorso seguito sin qui mostri l'opportunità di itinerari di formazione al ministero e nel ministero che non possono essere generalizzati. Occorrerà, ad ogni buon conto, che il percorso della conoscenza di sé sia valorizzato. E ciò, non con l'obiettivo, piuttosto sterile, di una sorta di "diagnosi" o, peggio, di un elenco di tratti più o meno statico, ma per giungere in se stessi, per quanto in modo sempre approssimativo e mai definitivo, ad una lettura di quel mondo emozionale che in noi talora giunge a dettare le sue leggi, anche se non ci sembra.
La differenza consistente rispetto ad un passato recente o remoto, non sta soltanto sul versante della preponderanza emozionale, ma anche della sua difficoltosa conoscibilità, precisamente a motivo del suo possibile carattere precoce.
E c'è di più. Quel mondo emozionale non va trattato sempre o soltanto come un nemico invisibile, o come quel cavallo bizzarro che può soltanto disarcionare. Costituisce in realtà una risorsa potente, che la sua difficile governabilità non rende per questo meno importante.
Mi pare che un grande capitolo sia da esplorare: la relazione fra vita emotiva e responsabilità morale. Si tratta di uno spazio di riflessione che investe ambiti assai più ampi di quello su cui ho inteso riflettere in questo articolo. Merita di essere indagato perché nella nostra cultura si dà molto credito alle dinamiche del sentire. Un tale credito è perlomeno ingenuo. Allo stesso tempo, però, il dinamismo della scelta, privato della dinamica affettiva, rischia di relegare l'emozione nei territori da sminare.
La vita emotiva, invece, è uno strumento potente di conoscenza della realtà che può essere trascurato solo a prezzo di un modo semplificato di accostarsi al mondo, di un modo incolore che si sottrae alla sfida della complessità.