La decisione di vita e le teorie della relazione oggettuale
Hans Zollner
L’attuale stato delle vocazioni nell’Europa occidentale, dice, salvo qualche eccezione, non solo di un numero costantemente basso di entrate, ma anche di un numero relativamente alto di abbandoni dopo l’impegno definitivo . Della sproporzione fra entrate ed uscite e delle sue ricadute sulla vita comunitaria e pastorale si è talmente parlato che al fenomeno ci siamo assuefatti: ci scuote l’aspetto quantitativo ma non pensiamo ai criteri qualitativi che potrebbero favorire l’aumento delle entrate e perseveranze. Anzi, a volte, si conclude che continuare a chiedere un legame definitivo di vita (come quella dei consigli evangelici) è pretendere troppo, che il tempo delle istituzioni religiose è finito e che bisogna mettere in conto impegni a tempo.
In questo articolo ci limitiamo ad un fattore psichico che ha un peso importante sulla disposizione interiore a fare e irrobustire la decisione di vita. Parliamo della capacità di stabilire «relazioni oggettuali totali». Per «oggetti» s’intendono le rappresentazioni interiori che ognuno si fa di se stesso, degli altri, delle cose e dei simboli (ad esempio, della Chiesa, di una particolare congregazione religiosa, della chiamata, della missione…). La tesi è la seguente: una decisione definitiva di vita nel contesto di un’istituzione vocazionale è tuttora possibile, legittima e salutare e la disposizione a tale legame dipende anche da un’adeguata maturazione nella capacità di relazioni oggettuali totali. È qui presupposto che la qualità delle relazioni oggettuali risulta dal complesso di elementi cognitivi, affettivi e comportamentali di una relazione data.
L’ambivalenza delle motivazioni di entrata
Parto da due esempi di motivazioni che, più o meno esplicitamente, riscontriamo in chi oggi si pone in prospettiva vocazionale. Evidentemente il sistema motivazionale di ciascuno ha infinite componenti, come anche differenti sono i modi femminile e maschile di organizzarsi . Però, le due motivazioni –che qui presento con tratti accentuati- evidenziano bene il contrasto fra ciò che i giovani dovrebbero aspettarsi di ricevere dalla comunità in cui pensano di entrare e ciò che loro stessi sono disposti a dare; queste motivazioni sono la base psicologica per la disponibilità o meno a questo ricevere e dare; potrebbe rivelarsi unilaterali e rischiose in vista della irrevocabilità della decisione.
La realizzazione di sé
L’idea di avere un ambiente che favorisca lo sviluppo delle proprie inclinazioni non solo umane ma anche spirituali, pastorali e missionarie è un anelito coinvolgente. Esplicitare i propri talenti è anche un mandato biblico. Ma altrettanto biblica è la constatazione che la persona umana è tentata dal male e può anche re-indirizzare questo anelito verso presunti vantaggi di natura più personale. Per questo, nella prospettiva biblica la realizzazione di sé è un «prodotto derivato»: dono di grazia che si dà «da sé» là dove gli occhi mirano sempre più a Dio e al prossimo nella logica del granello di senape.
Occorre, dunque, chiedersi: fino a che punto l’anelito alla realizzazione di sé concorda con l’ideale della sequela di Gesù e fino a che punto sottende un ideale centrato sull’io? Il legame con la comunità di appartenenza sarà indebolito là dove la rappresentazione auto-centrata della realizzazione di sé («per me») collide con quella che la comunità in cui si vuole entrare ha di sé e della missione («per Dio e l’umanità»). Quando la disponibilità ad iniziare un cammino formativo è troppo condizionata dai propri bisogni o dalle proprie idee, è abbastanza facile che si sviluppi un’appartenenza con riserva e una relazionalità sotto condizione. Quando si valuta una forma di vita, un tipo di missione o una comunità con il metro del «per me», «mi sta bene», allora l’orizzonte di giudizio seguirà le categorie del «mi piace quindi è buono», «lo sento quindi è importante»…
Qui si gioca anche un particolare modo di vivere il tempo: molto gusto per il presente e poco interesse per la memoria storica (umana e spirituale) e per l’orientamento verso il futuro. Per riconoscere la ristrettezza e fragilità di certi orizzonti di giudizio ci vuole una percezione del tempo ampia e dilatata senza la quale è difficile ricondurre la molteplicità del vissuto in un progetto unitario. Nel viaggio della vita, diventerà sempre più difficile liberarsi da uno sguardo sfuggevole in favore di un impegno duraturo. A causa di questa ristrettezza si spiega anche la resistenza a lasciarsi formare, a prendere in considerazione e ad accettare il carisma della comunità, ad interrogarsi sulla qualità dei propri gusti e attaccamenti e ad integrarli in un sentire comunitario.
La richiesta di una comunità solida
Essere accettati in un ambiente che sostenga, con una sua tipica spiritualità e testimonianza autentica, è una motivazione legittima e comprensibile, dal grande significato a livello razionale. Il valore «comunità» é un cardine della vita cristiana e vocazionale. Però, se non lo si pensa come luogo dell’incontro e della relazione, questo valore perde il suo significato intrinseco, il suo potere di influire sullo sviluppo dell’individuo e scivola nell’idea di una cerchia chiusa e protetta di persone che condividono le stesse idee. Il dialogo e la comunicazione diventano valori in se stessi mentre i loro contenuti (di idee, orientamenti, comportamenti) di secondaria rilevanza. Con un’idea implicita siffatta, quando la comunità presenta la monotonia e piattezza del quotidiano, la persona difficilmente saprà gestirne le tensioni e le richieste.
Non è raro che nella pretesa di trovare una comunità ben riuscita si nasconda proprio questa rappresentazione ristretta di comunità. Infatti, a questa pretesa dei candidati corrisponde spesso una loro scarsa attitudine e disponibilità a fare qualcosa di concreto per contribuire al miglioramento della comunità, una certa ritrosia a lasciare i compromessi, una riluttanza a tollerare le differenze inevitabili . La motivazione comunitaria, così significativa a livello razionale, si conferma essere mito quando, poi, si vede che per evitare le tensioni comunitarie si fuggono i confratelli difficili e si scansano le situazioni spiacevoli.
Ciò che la comunità offre
Qui si pongono interessanti interrogativi circa lo spirito comunitario. Quale tipo di «relazione oggettuale» caratterizza, nel suo insieme, una data comunità nella definizione di se stessa e nel suo modo di agire? Le persone che sono relativamente «mature» nella loro relazione oggettuale, a quali tipi di tensione vanno incontro quando vivono in una comunità che tratta i suoi membri in modo relativamente «immaturo»? In quale misura una povera definizione che la comunità ha di sé influisce sui conflitti relazionali, le uscite o i cambiamenti? Non si può subito dire che chi esce a causa di tali conflitti è, in ogni aspetto, più maturo della comunità che lascia o di chi rimane. Gli esempi dei profeti e dei santi (tipo Antonio da Padova o Teresa d’Avila) dimostrano però che nelle comunità ci possono essere persone con una relazione oggettuale più matura di quella che caratterizza la comunità stessa e che per viverla hanno dovuto trovare un’altra strada .
Ai fini della comprensione di se stessa e del miglioramento del suo fare, la comunità e l’istituzione vocazionale possono ricevere un importante slancio dalle motivazioni dei nuovi entrati la cui antropologia non parte più soltanto dall’antico sottofondo ascetico. C’è tuttavia da considerare che quando la realizzazione di sé nella comunità si dimostra essere ricerca di affermazione di sé, allora il mettersi a disposizione attraverso la consacrazione è ricerca (anche se spesso inconscia) di «tenere i piedi all’asciutto» e di evitarsi ulteriori e nuovi interrogativi sulla volontà di Dio. D’altra parte, anche l’apertura e la testimonianza della comunità diminuisce quando lei stessa si presenta come luogo di fuga dalle sfide esterne. Nell’uno e nell’altro caso, è l’accento alla totalità della vita religiosa che viene compromesso. Si può dire così: dove gli attaccamenti ad un particolare e determinato tipo e luogo di comunità o di attività superano i limiti del normale e del conveniente, lì c’è un pesante restringimento dell’angolo di visuale sulla vita vocazionale. Non è raro trovarlo alla base di chi esce e di chi, dentro, si fa il suo nido protetto.
Le teorie della relazione oggettuale
Che può dire una o l’altra scuola psicologica sulla fondazione e sulla problematica della vita in vocazione? Per poter rispondere bisogna avere chiaro a quali condizioni si possono assumere i dati di una scienza umana all’interno del quadro di riferimento teologico e spirituale . La psicologia –ammesso ma non concesso che ce ne sia una sola– , da sé, non può dire se una decisione di vita sia consigliabile, significativa o meno. Può solo offrire criteri per valutare se una persona è «riuscita» (nel senso che «funziona» bene) o «fallita» (nel senso che ha disturbi più o meno patologici) . Una psicologia seria non inventa dei misurini per dire «fino a 50 punti: matto; oltre ai 50: sano» né propone magiche scorciatoie per risolvere eventi e domande umane piuttosto complesse. Però, le sue descrizioni della personalità possono chiarire se e come una determinata forma di vita (della cui dignità quelle descrizioni non si esprimono) è, per una data persona, utile, sopportabile, fonte di salute. Nell’area della psicologia del profondo anche le teorie della relazione oggettuale aiutano nella chiarificazione di questo aspetto .
Secondo queste teorie, un presupposto perché l’io arrivi ad una relazione totale appagante è la capacità di aver trovato in se stesso un rapporto equilibrato fra presenza a se stesso e distanza da se stesso . Ossia, solo chi si rapporta in modo ampio e realista con se stesso («Sé come oggetto») può anche apprezzare in modo durevole e disinteressato un oggetto da lui indipendente.
Si presenta qui una difficoltà. Da trent’anni a questa parte è comune fra gli psicoterapeuti del nostro mondo occidentale constatare l’aumentata difficoltà delle persone ad accettare, congiuntamente, le proprie forze e debolezze e la correlata difficoltà a percepirsi come appartenenti ad una collettività solidale . Questa, che è difficoltà di relazioni oggettuali (compresa la relazione oggettuale con il proprio Sé) riduce la capacità di percepire e di reagire agli oggetti totali e porta a fermarsi ad «oggetti parziali». Di tutte le caratteristiche dell’oggetti, il soggetto seleziona solo gli aspetti piacevoli o, all’opposto, solo quelli spiacevoli (ad esempio, di una persona sa cogliere solo l’aspetto sessuale, di simpatia, intelligenza…) e svaluta quelli opposti o addirittura neanche li vede. Non riesce a vedere l’oggetto nella sua verità totale di bello e spiacevole simultaneamente, e anziché coglierlo nella sua autonomia, usa di esso solo quelle parti che gli servono per mantenere quella che ritiene la propria stabilità psichica. Ne deriva che con l’oggetto specifico avrà una relazione parziale e tendenzialmente instabile: quando esso non mostrerà più soltanto il suo aspetto bello e piacevole, la relazione perderà di significato positivo, soprattutto da un punto di vista emotivo. Nei casi estremi, gli aspetti spiacevoli dell’ «oggetto esterno» o dell’«oggetto Sé» saranno negati e scissi.
Questo modo di spiegare l’immaturità della persona influisce sul modo di fare psicoterapia. Nella psicoanalisi classica il punto centrale consisteva nello scoprire i conflitti pulsionali e le resistenze, ora si lavora sui modelli relazionali. In ogni tipo di relazione, infatti, si ripetono le debolezze e fortezze dei modelli relazionali precedentemente interiorizzati; ciò avviene anche nella relazione terapeutica. Da qui l’importanza di analizzare il qui-e-ora dell’interazione psicoterapeutica. La relazione cliente-terapeuta, correttamente impostata, può regolare e risanare gli aspetti disturbati o poco sviluppati della relazione oggettuale del cliente. Se il aiuta il cliente ad avere con lui una equilibrata relazione positiva e negativa, costui progredirà nel riparare o ricuperare la capacità di una relazione oggettuale più totale . Ciò lo aiuterà a sviluppare una relazione più completa, appassionata e duratura anche con i valori per lui importanti . La stessa dinamica vale anche per il rapporto educativo.
Abbandonare la partita o rivedere il modo di giocare?
Queste teorie non ritengono che un legame di vita per sempre possa costituire un attentato all’umanità del soggetto. Al contrario, giocarsi la propria vita e farlo nelle normali difficoltà del quotidiano è un modo attivo e responsabile per espandere in sé l’umanità totale. La difficoltà ad avere relazioni totali con gli altri, con il lavoro, con l’istituzione di appartenenza e con le motivazioni connesse a questi compiti si manifestano quando l’Io ha un rapporto poco equilibrato con sé e con gli oggetti. Se a ciò si aggiunge che la decisione di vita è una caratteristica non molto valorizzata dalla società, che le esigenze del vivere insieme e in modo disponibile appaiono troppo pretenziose, si capisce perché il tema del legame duraturo è oggi difficile da affrontare e da accettare. Nasce una domanda interessante: fino a che punto è possibile o sarà possibile riconoscere, congiuntamente, le forze e debolezze (individuali, comunitarie e istituzionali) così da poterle integrare e giungere al risultato auspicato che ciò torni di vantaggio per una maggiore capacità relazionale sia delle persone che delle istituzioni anziché introdurre l’imbarazzante dilemma se, a vincere, debba essere la persona o le istituzioni?
All’inizio della decisione, è normale che si abbiano motivazioni di entrata «distorte» insieme ad una rappresentazione fortemente ideale di sé e della comunità. Molti presentano uno sviluppo deficitario nelle relazioni con sé e con l’oggetto. Il desiderio di autorealizzazione e di comunità può sottendere anche motivazioni difensive. Oggi, la situazione è diversa dal recente passato. Allora il pericolo era la svalutazione di se stessi coperta da un’accettazione della sofferenza troppo velocemente tradotta in ascesi guaritrice (il cui risultato non di rado era l’amarezza e l’irrigidimento). Oggi, invece, si rischia di percepire la vita religiosa (ma anche il matrimonio) come una lotteria: si punta, ma se la puntata non produce il guadagno desiderato nei tempi prestabiliti, s’interrompe il gioco. La grande attesa della vincita e la delusione successiva spingono ad uscire dal gioco per provare altrove. Tuttavia, non è saggio perdere, in questo modo, l’intera giocata e rimanere con lo scotto della umiliazione di sé e una visione amareggiata della vita. Sarebbe meglio pagare lo scotto di una migliore calibratura fra il (piacevole) sviluppo di sé e (lo spiacevole) rinnegamento di sé.
Punti di attenzione
Il carisma delle istituzioni vocazionali affonda le radici nella sequela radicale di Gesù. La possibilità di tradurre in pratica la sequela –fare dono di sé stessi per la fiducia in Dio stesso- dipende anche dalla capacità di sviluppare la relazione significativa e totale con sé e gli oggetti.
È importante, perciò, considerare come si possano conciliare e rinforzare reciprocamente fra loro, da una parte, le rappresentazioni e i bisogni dei singoli e, dall’altra, il tipo di missione proposta dall’istituzione e i desideri legittimi degli altri membri della comunità.
In pratica, propongo i seguenti criteri di accoglienza in vocazione.
L’attuale stato delle vocazioni nell’Europa occidentale, dice, salvo qualche eccezione, non solo di un numero costantemente basso di entrate, ma anche di un numero relativamente alto di abbandoni dopo l’impegno definitivo . Della sproporzione fra entrate ed uscite e delle sue ricadute sulla vita comunitaria e pastorale si è talmente parlato che al fenomeno ci siamo assuefatti: ci scuote l’aspetto quantitativo ma non pensiamo ai criteri qualitativi che potrebbero favorire l’aumento delle entrate e perseveranze. Anzi, a volte, si conclude che continuare a chiedere un legame definitivo di vita (come quella dei consigli evangelici) è pretendere troppo, che il tempo delle istituzioni religiose è finito e che bisogna mettere in conto impegni a tempo.
In questo articolo ci limitiamo ad un fattore psichico che ha un peso importante sulla disposizione interiore a fare e irrobustire la decisione di vita. Parliamo della capacità di stabilire «relazioni oggettuali totali». Per «oggetti» s’intendono le rappresentazioni interiori che ognuno si fa di se stesso, degli altri, delle cose e dei simboli (ad esempio, della Chiesa, di una particolare congregazione religiosa, della chiamata, della missione…). La tesi è la seguente: una decisione definitiva di vita nel contesto di un’istituzione vocazionale è tuttora possibile, legittima e salutare e la disposizione a tale legame dipende anche da un’adeguata maturazione nella capacità di relazioni oggettuali totali. È qui presupposto che la qualità delle relazioni oggettuali risulta dal complesso di elementi cognitivi, affettivi e comportamentali di una relazione data.
L’ambivalenza delle motivazioni di entrata
Parto da due esempi di motivazioni che, più o meno esplicitamente, riscontriamo in chi oggi si pone in prospettiva vocazionale. Evidentemente il sistema motivazionale di ciascuno ha infinite componenti, come anche differenti sono i modi femminile e maschile di organizzarsi . Però, le due motivazioni –che qui presento con tratti accentuati- evidenziano bene il contrasto fra ciò che i giovani dovrebbero aspettarsi di ricevere dalla comunità in cui pensano di entrare e ciò che loro stessi sono disposti a dare; queste motivazioni sono la base psicologica per la disponibilità o meno a questo ricevere e dare; potrebbe rivelarsi unilaterali e rischiose in vista della irrevocabilità della decisione.
La realizzazione di sé
L’idea di avere un ambiente che favorisca lo sviluppo delle proprie inclinazioni non solo umane ma anche spirituali, pastorali e missionarie è un anelito coinvolgente. Esplicitare i propri talenti è anche un mandato biblico. Ma altrettanto biblica è la constatazione che la persona umana è tentata dal male e può anche re-indirizzare questo anelito verso presunti vantaggi di natura più personale. Per questo, nella prospettiva biblica la realizzazione di sé è un «prodotto derivato»: dono di grazia che si dà «da sé» là dove gli occhi mirano sempre più a Dio e al prossimo nella logica del granello di senape.
Occorre, dunque, chiedersi: fino a che punto l’anelito alla realizzazione di sé concorda con l’ideale della sequela di Gesù e fino a che punto sottende un ideale centrato sull’io? Il legame con la comunità di appartenenza sarà indebolito là dove la rappresentazione auto-centrata della realizzazione di sé («per me») collide con quella che la comunità in cui si vuole entrare ha di sé e della missione («per Dio e l’umanità»). Quando la disponibilità ad iniziare un cammino formativo è troppo condizionata dai propri bisogni o dalle proprie idee, è abbastanza facile che si sviluppi un’appartenenza con riserva e una relazionalità sotto condizione. Quando si valuta una forma di vita, un tipo di missione o una comunità con il metro del «per me», «mi sta bene», allora l’orizzonte di giudizio seguirà le categorie del «mi piace quindi è buono», «lo sento quindi è importante»…
Qui si gioca anche un particolare modo di vivere il tempo: molto gusto per il presente e poco interesse per la memoria storica (umana e spirituale) e per l’orientamento verso il futuro. Per riconoscere la ristrettezza e fragilità di certi orizzonti di giudizio ci vuole una percezione del tempo ampia e dilatata senza la quale è difficile ricondurre la molteplicità del vissuto in un progetto unitario. Nel viaggio della vita, diventerà sempre più difficile liberarsi da uno sguardo sfuggevole in favore di un impegno duraturo. A causa di questa ristrettezza si spiega anche la resistenza a lasciarsi formare, a prendere in considerazione e ad accettare il carisma della comunità, ad interrogarsi sulla qualità dei propri gusti e attaccamenti e ad integrarli in un sentire comunitario.
La richiesta di una comunità solida
Essere accettati in un ambiente che sostenga, con una sua tipica spiritualità e testimonianza autentica, è una motivazione legittima e comprensibile, dal grande significato a livello razionale. Il valore «comunità» é un cardine della vita cristiana e vocazionale. Però, se non lo si pensa come luogo dell’incontro e della relazione, questo valore perde il suo significato intrinseco, il suo potere di influire sullo sviluppo dell’individuo e scivola nell’idea di una cerchia chiusa e protetta di persone che condividono le stesse idee. Il dialogo e la comunicazione diventano valori in se stessi mentre i loro contenuti (di idee, orientamenti, comportamenti) di secondaria rilevanza. Con un’idea implicita siffatta, quando la comunità presenta la monotonia e piattezza del quotidiano, la persona difficilmente saprà gestirne le tensioni e le richieste.
Non è raro che nella pretesa di trovare una comunità ben riuscita si nasconda proprio questa rappresentazione ristretta di comunità. Infatti, a questa pretesa dei candidati corrisponde spesso una loro scarsa attitudine e disponibilità a fare qualcosa di concreto per contribuire al miglioramento della comunità, una certa ritrosia a lasciare i compromessi, una riluttanza a tollerare le differenze inevitabili . La motivazione comunitaria, così significativa a livello razionale, si conferma essere mito quando, poi, si vede che per evitare le tensioni comunitarie si fuggono i confratelli difficili e si scansano le situazioni spiacevoli.
Ciò che la comunità offre
Qui si pongono interessanti interrogativi circa lo spirito comunitario. Quale tipo di «relazione oggettuale» caratterizza, nel suo insieme, una data comunità nella definizione di se stessa e nel suo modo di agire? Le persone che sono relativamente «mature» nella loro relazione oggettuale, a quali tipi di tensione vanno incontro quando vivono in una comunità che tratta i suoi membri in modo relativamente «immaturo»? In quale misura una povera definizione che la comunità ha di sé influisce sui conflitti relazionali, le uscite o i cambiamenti? Non si può subito dire che chi esce a causa di tali conflitti è, in ogni aspetto, più maturo della comunità che lascia o di chi rimane. Gli esempi dei profeti e dei santi (tipo Antonio da Padova o Teresa d’Avila) dimostrano però che nelle comunità ci possono essere persone con una relazione oggettuale più matura di quella che caratterizza la comunità stessa e che per viverla hanno dovuto trovare un’altra strada .
Ai fini della comprensione di se stessa e del miglioramento del suo fare, la comunità e l’istituzione vocazionale possono ricevere un importante slancio dalle motivazioni dei nuovi entrati la cui antropologia non parte più soltanto dall’antico sottofondo ascetico. C’è tuttavia da considerare che quando la realizzazione di sé nella comunità si dimostra essere ricerca di affermazione di sé, allora il mettersi a disposizione attraverso la consacrazione è ricerca (anche se spesso inconscia) di «tenere i piedi all’asciutto» e di evitarsi ulteriori e nuovi interrogativi sulla volontà di Dio. D’altra parte, anche l’apertura e la testimonianza della comunità diminuisce quando lei stessa si presenta come luogo di fuga dalle sfide esterne. Nell’uno e nell’altro caso, è l’accento alla totalità della vita religiosa che viene compromesso. Si può dire così: dove gli attaccamenti ad un particolare e determinato tipo e luogo di comunità o di attività superano i limiti del normale e del conveniente, lì c’è un pesante restringimento dell’angolo di visuale sulla vita vocazionale. Non è raro trovarlo alla base di chi esce e di chi, dentro, si fa il suo nido protetto.
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Al di là dei due esempi motivazionali citati, non c’è realizzazione di sé in senso cristiano né comunità dalla solida struttura relazionale quando la motivazione per la decisione (di entrare, restare, garantire la comunità) ruota intorno all’io, anziché avere come base la libertà dal disprezzo di sé, dal peccato e dalla morte e la libertà per il dono di sé a Dio e ai fratelli.
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Le teorie della relazione oggettuale
Che può dire una o l’altra scuola psicologica sulla fondazione e sulla problematica della vita in vocazione? Per poter rispondere bisogna avere chiaro a quali condizioni si possono assumere i dati di una scienza umana all’interno del quadro di riferimento teologico e spirituale . La psicologia –ammesso ma non concesso che ce ne sia una sola– , da sé, non può dire se una decisione di vita sia consigliabile, significativa o meno. Può solo offrire criteri per valutare se una persona è «riuscita» (nel senso che «funziona» bene) o «fallita» (nel senso che ha disturbi più o meno patologici) . Una psicologia seria non inventa dei misurini per dire «fino a 50 punti: matto; oltre ai 50: sano» né propone magiche scorciatoie per risolvere eventi e domande umane piuttosto complesse. Però, le sue descrizioni della personalità possono chiarire se e come una determinata forma di vita (della cui dignità quelle descrizioni non si esprimono) è, per una data persona, utile, sopportabile, fonte di salute. Nell’area della psicologia del profondo anche le teorie della relazione oggettuale aiutano nella chiarificazione di questo aspetto .
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Le teorie della relazione oggettuale derivano, sebbene in gradi diversi, dalla psicoanalisi classica e in particolare dal suo modo di spiegare le forze responsabili dello sviluppo umano, secondo il modello pulsionale e strutturale di Freud. Tuttavia, secondo queste teorie l’«Io» o il «Sé» e i suoi meccanismi di difesa non sono soltanto dei derivati pulsionali dell’ «Id», ma hanno energia autonoma e tendono a creare e plasmare relazioni oggettuali. Per «oggetti» interni si intendono le immagini mentali che, dall’infanzia in poi, prendono forma nell’Io a seguito della introiezione delle relazioni fra Io e mondo esterno. Grazie all’elaborazione psichica dei modelli relazionali appresi, la struttura interna dell’Io si sviluppa e si differenzia. Perciò, crescere bene significa possedere sempre più accurati e migliori modelli relazionali (cognitivi-affettivi-comportamentali) con gli altri e con gli oggetti del mondo esterno fino al punto di arrivare a riconoscere l’oggetto nella sua indipendenza e totalità: come una entità autonoma nel suo esistere e reagire, composta di elementi «buoni» e «cattivi», «piacevoli» e «spiacevoli», tutti facenti parte dell’unico e medesimo oggetto .
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Le teorie della relazione oggettuale derivano, sebbene in gradi diversi, dalla psicoanalisi classica e in particolare dal suo modo di spiegare le forze responsabili dello sviluppo umano, secondo il modello pulsionale e strutturale di Freud. Tuttavia, secondo queste teorie l’«Io» o il «Sé» e i suoi meccanismi di difesa non sono soltanto dei derivati pulsionali dell’ «Id», ma hanno energia autonoma e tendono a creare e plasmare relazioni oggettuali. Per «oggetti» interni si intendono le immagini mentali che, dall’infanzia in poi, prendono forma nell’Io a seguito della introiezione delle relazioni fra Io e mondo esterno. Grazie all’elaborazione psichica dei modelli relazionali appresi, la struttura interna dell’Io si sviluppa e si differenzia. Perciò, crescere bene significa possedere sempre più accurati e migliori modelli relazionali (cognitivi-affettivi-comportamentali) con gli altri e con gli oggetti del mondo esterno fino al punto di arrivare a riconoscere l’oggetto nella sua indipendenza e totalità: come una entità autonoma nel suo esistere e reagire, composta di elementi «buoni» e «cattivi», «piacevoli» e «spiacevoli», tutti facenti parte dell’unico e medesimo oggetto .
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Secondo queste teorie, un presupposto perché l’io arrivi ad una relazione totale appagante è la capacità di aver trovato in se stesso un rapporto equilibrato fra presenza a se stesso e distanza da se stesso . Ossia, solo chi si rapporta in modo ampio e realista con se stesso («Sé come oggetto») può anche apprezzare in modo durevole e disinteressato un oggetto da lui indipendente.
Si presenta qui una difficoltà. Da trent’anni a questa parte è comune fra gli psicoterapeuti del nostro mondo occidentale constatare l’aumentata difficoltà delle persone ad accettare, congiuntamente, le proprie forze e debolezze e la correlata difficoltà a percepirsi come appartenenti ad una collettività solidale . Questa, che è difficoltà di relazioni oggettuali (compresa la relazione oggettuale con il proprio Sé) riduce la capacità di percepire e di reagire agli oggetti totali e porta a fermarsi ad «oggetti parziali». Di tutte le caratteristiche dell’oggetti, il soggetto seleziona solo gli aspetti piacevoli o, all’opposto, solo quelli spiacevoli (ad esempio, di una persona sa cogliere solo l’aspetto sessuale, di simpatia, intelligenza…) e svaluta quelli opposti o addirittura neanche li vede. Non riesce a vedere l’oggetto nella sua verità totale di bello e spiacevole simultaneamente, e anziché coglierlo nella sua autonomia, usa di esso solo quelle parti che gli servono per mantenere quella che ritiene la propria stabilità psichica. Ne deriva che con l’oggetto specifico avrà una relazione parziale e tendenzialmente instabile: quando esso non mostrerà più soltanto il suo aspetto bello e piacevole, la relazione perderà di significato positivo, soprattutto da un punto di vista emotivo. Nei casi estremi, gli aspetti spiacevoli dell’ «oggetto esterno» o dell’«oggetto Sé» saranno negati e scissi.
Questo modo di spiegare l’immaturità della persona influisce sul modo di fare psicoterapia. Nella psicoanalisi classica il punto centrale consisteva nello scoprire i conflitti pulsionali e le resistenze, ora si lavora sui modelli relazionali. In ogni tipo di relazione, infatti, si ripetono le debolezze e fortezze dei modelli relazionali precedentemente interiorizzati; ciò avviene anche nella relazione terapeutica. Da qui l’importanza di analizzare il qui-e-ora dell’interazione psicoterapeutica. La relazione cliente-terapeuta, correttamente impostata, può regolare e risanare gli aspetti disturbati o poco sviluppati della relazione oggettuale del cliente. Se il aiuta il cliente ad avere con lui una equilibrata relazione positiva e negativa, costui progredirà nel riparare o ricuperare la capacità di una relazione oggettuale più totale . Ciò lo aiuterà a sviluppare una relazione più completa, appassionata e duratura anche con i valori per lui importanti . La stessa dinamica vale anche per il rapporto educativo.
Abbandonare la partita o rivedere il modo di giocare?
Queste teorie non ritengono che un legame di vita per sempre possa costituire un attentato all’umanità del soggetto. Al contrario, giocarsi la propria vita e farlo nelle normali difficoltà del quotidiano è un modo attivo e responsabile per espandere in sé l’umanità totale. La difficoltà ad avere relazioni totali con gli altri, con il lavoro, con l’istituzione di appartenenza e con le motivazioni connesse a questi compiti si manifestano quando l’Io ha un rapporto poco equilibrato con sé e con gli oggetti. Se a ciò si aggiunge che la decisione di vita è una caratteristica non molto valorizzata dalla società, che le esigenze del vivere insieme e in modo disponibile appaiono troppo pretenziose, si capisce perché il tema del legame duraturo è oggi difficile da affrontare e da accettare. Nasce una domanda interessante: fino a che punto è possibile o sarà possibile riconoscere, congiuntamente, le forze e debolezze (individuali, comunitarie e istituzionali) così da poterle integrare e giungere al risultato auspicato che ciò torni di vantaggio per una maggiore capacità relazionale sia delle persone che delle istituzioni anziché introdurre l’imbarazzante dilemma se, a vincere, debba essere la persona o le istituzioni?
All’inizio della decisione, è normale che si abbiano motivazioni di entrata «distorte» insieme ad una rappresentazione fortemente ideale di sé e della comunità. Molti presentano uno sviluppo deficitario nelle relazioni con sé e con l’oggetto. Il desiderio di autorealizzazione e di comunità può sottendere anche motivazioni difensive. Oggi, la situazione è diversa dal recente passato. Allora il pericolo era la svalutazione di se stessi coperta da un’accettazione della sofferenza troppo velocemente tradotta in ascesi guaritrice (il cui risultato non di rado era l’amarezza e l’irrigidimento). Oggi, invece, si rischia di percepire la vita religiosa (ma anche il matrimonio) come una lotteria: si punta, ma se la puntata non produce il guadagno desiderato nei tempi prestabiliti, s’interrompe il gioco. La grande attesa della vincita e la delusione successiva spingono ad uscire dal gioco per provare altrove. Tuttavia, non è saggio perdere, in questo modo, l’intera giocata e rimanere con lo scotto della umiliazione di sé e una visione amareggiata della vita. Sarebbe meglio pagare lo scotto di una migliore calibratura fra il (piacevole) sviluppo di sé e (lo spiacevole) rinnegamento di sé.
Punti di attenzione
Il carisma delle istituzioni vocazionali affonda le radici nella sequela radicale di Gesù. La possibilità di tradurre in pratica la sequela –fare dono di sé stessi per la fiducia in Dio stesso- dipende anche dalla capacità di sviluppare la relazione significativa e totale con sé e gli oggetti.
È importante, perciò, considerare come si possano conciliare e rinforzare reciprocamente fra loro, da una parte, le rappresentazioni e i bisogni dei singoli e, dall’altra, il tipo di missione proposta dall’istituzione e i desideri legittimi degli altri membri della comunità.
In pratica, propongo i seguenti criteri di accoglienza in vocazione.
- Fino a che punto la persona ha una percezione totale di sé e del suo mondo e ha imparato a convivere con le normali trasformazioni e tensioni della vita pratica? Se la capacità di tollerare l’ambivalenza è povera, é meglio, per il bene di tutti, sconsigliare l’ingresso. È vero che una buona formazione e relazione educativa dovrebbe far maturare il soggetto, ma in questo caso la formazione ha poca forza di presa e richiederebbe mezzi che il normale educatore non ha. Il trascorrere del tempo o il fare esperienze senza la previa capacità di riflettere su di esse e di interpretarle, non cambia la struttura delle relazioni oggettuali della personalità.
- Negli anni di formazione occorre vedere come la persona reagisce ai diversi oggetti (comunità, studio, lavoro, superiori, singoli confratelli…): in modo realista, intraprendente, desideroso di apprendere?
- Il dubbio che la povera capacità di relazione oggettuale perduri nel tempo rimane quando la persona, in modo stabile e in diversi ambiti, mostra passività, instabilità emotiva, scarsa disponibilità e poca tolleranza al conflitto.
- Quando una visione ampia e articolata di ciò che sono le persone, la vita comunitaria e la missione è fuori dalla portata degli occhi del soggetto, le crisi del percorso che costui incontrerà (spirituali, comunitarie, di motivazioni, pastorali...) difficilmente potranno, a lungo termine, dimostrarsi produttive.
- Per favorire l’attitudine alla dedizione totale ci vuole, per il bene della persona e dell’istituzione, un accompagnamento empatico e confrontativo, promuovente e esigente.
Aggiornamenti 3D
10/12/24 - L'accompagnamento e il problema della teodicea - 3/2022
01/12/24 - La crisi del prete come opportunità /1 - 3/2022
20/11/24 - Penthos: la compunzione - 3/2022
10/11/24 - I conflitti mettono alla prova, ma aprono la strada - 3/2022
05/11/24 - Quaderni 3D (nn. 3 e 4)
01/11/24 - L'antropologia del limite - 3/2022
20/10/24 - Uno sguardo sul lessico emozionale della lingua italiana - 3/2022
10/10/24 - Prete o sacerdote? - 2/2022
01/10/24 - Perchè studiare teologia? - 2/2022
20/09/24 - Dio è complesso, noi pure siamo complicati - 2/2022
10/09/24 - "Sentirsi degni" davanti al Mistero - 2/2022
01/09/24 - Apprendimenti dall'emergenza Covid-19 - 2/2022
30/08/24 - Il potere religioso e la fiducia - Editoriale 3/2024
20/08/24 - Aggiornamento traduzioni articoli 3D - 1/2017
30/07/24 - Un'interpretazione della Ratio Fundamentalis - 2/2022
20/07/24 - E' possibile rinnovare le istituzioni? - 2/2022
15/07/24 - L'identità al tempo dell'era digitale / 2 - 3/2022
05/07/24 - Formare nel tempo dell'infosfera: presupposti teorici/1 - 2/2022
01/12/24 - La crisi del prete come opportunità /1 - 3/2022
20/11/24 - Penthos: la compunzione - 3/2022
10/11/24 - I conflitti mettono alla prova, ma aprono la strada - 3/2022
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