Bonhoeffer e l'ora del disincanto
Andrea Brutto
Tredimensioni, 2(2005)1, 38-49
Fra le opere di Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), teologo e pastore luterano tedesco, Resistenza e resa è sicuramente la più conosciuta. Si tratta della raccolta delle lettere scritte durante la prigionia a causa dell’opposizione al regime nazionalsocialista. Questi testi, oltre che affidarci in maniera frammentata lo sviluppo ultimo del suo pensiero teologico, ci consegnano una testimonianza di vita cristiana di alto profilo dove emerge lo spessore della sua umanità che impara a consegnarsi tutta nelle mani di Dio.
In questo mio contributo vorrei avviare la lettura di Resistenza e resa dal punto di vista educativo, quindi alla luce della domanda: cosa ci può dire l’esperienza di Bonhoeffer in carcere circa il modo di gestire l’ora del disincanto? Servendomi di quell’approccio psicologico che va oltre l’analisi dei fatti di cronaca, per riconoscere in essi la presenza e l’azione di quella realtà più profonda che è l’essenziale umanità, è possibile riconoscere nell’esperienza del carcere l’ora del disincanto, quell’ora imprevista e sconvolgente che provoca Bonhoeffer a cogliere il senso totale della vita che si presenta a lui proprio attraverso quell’esperienza particolare.
Ritengo che la reazione di Bonhoeffer possa essere di aiuto per chi voglia affrontare ed interpretare con serietà i passaggi difficili delle età della vita, quelli segnati dall’ora del disincanto, e di essi servirsi per allenarsi all’esercizio di quel pensiero affettuoso che a partire dall’evento particolare sa cogliere la globalità dell’esperienza che si sta vivendo. Vorrei, cioè, mostrare i processi interiori grazie ai quali Bonhoeffer riesce a trovare un senso più profondo, proprio quando si trova in una situazione diametralmente opposta a quella precedente.
Di Resistenza e resa mi limito ad esaminare il primo periodo della carcerazione in cui emerge il tema del rapporto di Bonhoeffer con il proprio vissuto, con la sua storia fino a quel momento, con l’ambiente familiare a cui si sente legato.
L’antefatto: i motivi dell’arresto
Bonhoeffer venne arrestato il 5 aprile 1943, insieme al cognato Hans von Dohnanyi e alla sorella Christine, con l’accusa di complicità in alto tradimento e tradimento della patria, e portato nel carcere militare giudiziario di Tegel, a nord-est di Berlino, per essere interrogato. Nell’inverno 1940/41 fu proprio il cognato von Donhanyi che lo convinse ad entrare nel gruppo di resistenza al regime nazionalsocialista che si era costituito all’interno dell’Abwehr, il servizio segreto militare, e che si estendeva al comando supremo delle forze armate. Comincia, così, la sua «vita duplice», quella cioè del pastore impegnato in un’attività politica clandestina.
La proposta fattagli dal cognato era motivata dal fatto che, grazie ai suoi rapporti ecumenici, poteva far conoscere più esattamente l'esistenza di una resistenza interna al regime nazista e saggiare la disponibilità degli alleati a collaborare con un'eventuale congiura. Al momento dell’arresto, però, niente del complotto e della completa costituzione del gruppo resistente era stato ancora scoperto. Grazie alle dichiarazioni concordate rese dai prigionieri in sede d’interrogatorio, l’imputazione per Bonhoeffer si trasformò nell’accusa di «demoralizzazione delle truppe.
Solamente dopo il fallimento dell’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, le responsabilità emersero e Bonhoeffer venne in seguito condotto al campo di sterminio di Flossenburg dove fu impiccato il 9 aprile 1945, insieme ad altri congiurati.
Un primo tentativo fallito
L’atteggiamento globale con il quale Bonhoeffer si pone di fronte al fatto dell’arresto, della detenzione e della sua condizione di prigioniero, è ben espresso nella sua prima lettera ai genitori dove scrive:
Un cambiamento interiore così forte come quello che un arresto così inaspettato porta con sé, la necessità di orientarsi interiormente e di adeguarsi a una situazione assolutamente nuova: tutto questo mette in ombra e rende secondaria l’importanza della sfera corporea; il che io considero un vero arricchimento della mia esperienza.
In queste poche righe, che hanno lo scopo di rassicurare i genitori sulle sue condizioni fisiche, inizia ad insinuarsi il compito, ritenuto «necessario», di un orientamento e di un adeguamento ad una situazione definita come «assolutamente nuova» che, in maniera brusca e repentina, Bonhoeffer si trova a vivere. E’ il compito di raccogliere il senso dato che questa nuova situazione può offrire e, insieme, di porre un senso proprio alla situazione che egli intuisce possa essere di arricchimento per la totalità della sua vita.
Come si muove Bonhoeffer per realizzare questo compito?
Uno dei primi passi è lasciarsi guidare da una disciplina interiore che in seguito si concretizza in una personale suddivisione del tempo, in quanto è consapevole che «l’ordine esteriore e puramente fisico […] fornisce già un certo sostegno all’ordine interiore».
Il tentativo è quello di ricostruire nella nuova vita del carcere la vita di sempre, cioè di rispondere con un’apparente normalità alla sfida della «situazione assolutamente nuova». Questo tentativo non risponde tanto al bisogno di negare la realtà presente del carcere, ma di trovare nel cambiamento di vita subito, una linearità e una continuità di significato. L’intento è collegare il senso dato dalla situazione nuova e il senso posto da lui, in modo che quest’ultimo possa meglio approfondirsi con il contributo che gli viene offerto dalla nuova situazione esistenziale. E’, in altre parole, l’esercizio pratico del pensare affettuoso.
Ma il tentativo non riesce perché Bonhoeffer non lascia ancora parlare l’evento nella sua interezza, con anche quelle parole di inquietudine che, improvvisamente, piomba su di lui dall’esterno e sembra voler «strappare le cose che contano di più» e che rende il cuore come «quella cosa ostinata e pavida che non è possibile penetrare».
L’evento della carcerazione comincia lentamente a manifestarsi nella sua interezza: non continuità di sempre in altra forma ma separazione dagli affetti più cari, dal suo lavoro di teologo e dalla vita della sua chiesa: da quello che definisce essere «il mondo che mi è proprio». La reazione iniziale all’inquietudine dell’ora è di solitudine e impotenza di fronte all’incapacità ad autodeterminarsi per il condizionamento esterno della vita del carcere. Solitudine e impotenza, che lo portano a pensare al suicidio come all’atto finale, alla soluzione di un processo di svuotamento, di annullamento che avverte consumarsi in lui.
Lo sviluppo del pensiero affettuoso
Lentamente si fa strada una soluzione migliore: affrontare la situazione, lasciando che essa parli al suo cuore in tutta la sua interezza e complessità:
Per superare psicologicamente le avversità c’è una strada più facile, quella di «evitare di pensare alle avversità» - e questa più o meno l’ho imparata – ed una più difficile: guardarle in faccia consapevolmente e superarle; il che io ancora non so fare. Ma bisogna imparare anche questa; anche perché la prima, credo, è un piccolo autoinganno, anche se assolutamente lecito”.
All’inizio Bonhoeffer si scopre incapace di un tale sguardo. Ma si renderà ben presto conto dell’importanza di guardare in faccia l’evento, di starci dentro per poter riconoscere che «anche queste esperienze sono senz’altro buone e necessarie, perché si impara a conoscere meglio la natura umana». E’ il momento del disincanto che si presenta a lui nella «situazione assolutamente nuova» e nella quale si affaccia la domanda sul senso globale della sua vita. Adesso la situazione richiede di essere guardata in faccia, cominciando con il mettere in dialogo i due poli della dialettica in essa presenti: il polo del mondo-là-fuori e quello del mondo-qui-dentro.
L’avvio di questo dialogo permetterà a Bonhoeffer di sviluppare un pensiero affettuoso capace di cogliere e di tradurre un senso più ampio dell’esperienza di prigionia che sta vivendo e che renderà più piena la sua vita. Questo pensiero si fa strada nelle riflessioni che più di altre caratterizzano e segnano le tre tappe principali in cui si può suddividere il periodo della sua detenzione: il rapporto con il passato che si intreccia con quello del legame con gli altri (nel periodo degli interrogatori e dell’attesa del processo: aprile 1943 – aprile 1944), la ricchezza della vita e la fede come atto totale dell’uomo (nel tempo in cui resistere fino al tentativo di rovesciamento del regime: aprile – luglio 1944), infine, la resa come abbandono nelle braccia di Dio (dopo il fallimento dell’attentato a Hitler: luglio 1944 – febbraio 1945).
Da notare che questo processo interiore si avvia proprio nel momento di vita che sembra favorire esattamente il contrario. Nel periodo degli interrogatori e dell’attesa del processo (aprile 1943 - aprile del 1944) Bonhoeffer nutre l’aspettativa di non essere condannato, «ma posto in libertà». La modifica del capo d’accusa da «alto tradimento» a «demoralizzazione delle truppe», ottenuta grazie alle dichiarazioni concordate in sede di interrogatori preliminari, fa ben sperare sull’esito della sua vicenda. Ma quando la data del processo, fissata prima per il 17 dicembre 1943 e poi per il febbraio dell’anno successivo, slitta ancora, egli capisce che non può illudersi «su un rapido mutamento della propria situazione attraverso una nuova data per il processo». In questo quadro di attesa e di delusione, Bonhoeffer si concentra soprattutto su due temi: quello riguardanti il senso del passato e quello relativo al significato del legame con gli altri.
Alla ricerca del tempo perduto
La separazione con il suo mondo -soprattutto con le relazioni familiari- fa provare a Bonhoeffer l’impressione di aver perduto il proprio passato. Da qui il tentativo di mantenerlo vivo e recuperarlo.
Il compito non è d’immediata attuazione, visto che il carcere lo induce ad associare l’esperienza del tempo al senso di vuoto: «diverse strutture spirituali nel rapporto col passato…dimenticare… esperienze di cesure […] esperienza del tempo come esperienza della separazione […] Vuotezza del tempo nonostante ogni riempitivo».
Per rispondere a questa sfida che il tempo gli pone, mette mano alla stesura di un piccolo studio sul «sentimento del tempo» che, purtroppo, non è giunto fino a noi e che lo terrà impegnato fino a metà giugno 1943. Di questo progetto parlerà qualche mese dopo, nella lettera del 18 novembre 1943 all’amico Bethge: «Dal bisogno principalmente di rendere presente a me stesso il mio passato, in una situazione in cui il tempo poteva sembrare tanto facilmente “vuoto” e “perduto”, è nato un saggio sul “sentimento del tempo”. Gratitudine e pentimento: è questo che ci mantiene sempre presente il tempo passato».
Di fronte alla sensazione di un tempo vuoto e perduto, ciò che rende sempre presente il passato, ciò che lo recupera sono la gratitudine e il pentimento, che –per definizione- sono modi di sentire e atteggiamenti che ci mettono in relazione con l’altro e alludono ad un orizzonte di senso più ampio. La gratitudine la si può esprimere solo riferendosi ad un tu. Il pentimento si realizza perché ha come sfondo qualcuno o qualcosa a cui far riferimento e di fronte al quale si valuta la propria vita come carente e, insieme, si desidera di colmare questo vuoto.
Bonhoeffer sa vivere la gratitudine quando finalmente mette in relazione il passato, il mondo-là-fuori, e il presente, il mondo-qui-dentro, come ancora testimonia la lettera del 18 novembre 1943:
All’inizio mi sono anche domandato con inquietudine se fosse veramente la causa di Cristo quella per cui do tante preoccupazioni a voi tutti; ma mi sono tolto subito dalla testa la questione come una tentazione ed ho acquisito la certezza che il mio compito è proprio quello di sostenere sino alla fine un siffatto caso limite con tutta la sua problematica; ho acquisito la totale serenità su questo punto e l’ho conservata fino ad oggi. 1Pt 2,20; 3,14.
La continuità qui riconosciuta tra il passato e il presente, rimanda ad un orizzonte di senso più ampio, quello della fede, che investe tutta la vita: il passato diventa oggetto di gratitudine in quanto fa vivere nel presente una situazione considerata come il frutto della fedeltà alla causa di Cristo; ed è una fedeltà che attiva in Bonhoeffer la decisione di vivere fino in fondo, con la dedizione della sua vita, la «situazione assolutamente nuova» della prigionia: «attraverso ogni evento, quale che sia eventualmente il suo carattere non–divino, passa una strada che porta a Dio».
In questo più ampio orizzonte di senso, vive in modo più ampio anche la delusione della mancata scarcerazione. La vive come nostalgia che è quel sentimento che, facendoci attendere e soffrire per la separazione da ciò che amiamo, diventa legame vivo di comunione carico di speranza, per il fatto che «nulla di ciò che è passato va perduto» perché «Dio assieme a noi torna a cercare anche il passato che ci appartiene». Cosicché, quando la nostalgia si presenta nel nostro cuore, «dobbiamo essere consapevoli che è solo uno dei tanti “momenti” che Dio tiene ancora in serbo per noi». Qui si vede bene il passaggio dalla prevalenza dell’aspetto retrospettivo (mancanza) a quella dell’aspetto prospettico (anelito) della nostalgia: da dolore che fa ripiegare su se stessi e che fa guardare indietro, a «dolore che attende una restituzione» e che fa guardare in avanti, a Dio che tutto riporta: «Nulla va perduto, ma in Cristo tutto è conservato, custodito, ovviamente in forma mutata, trasparente, chiara, liberata dal tormento dei desideri egoistici.
Il legame con gli altri spezzato e ritrovato
L’altro tema che caratterizza il primo periodo della carcerazione di Bonhoeffer, è il legame con gli altri. Il tema s’intreccia con quello del passato, perché gli affetti più cari appaiono a Bonhoeffer appartenenti a quel mondo-là-fuori che rappresenta il suo passato da recuperare.
I rapporti con gli altri avvengono su tre modalità. La prima è quella dei pacchi che riceve e che definisce «un legame indiretto» con la sua famiglia che gli procura libri, oggetti personali ma anche del cibo, e che costituiscono un vero sollievo.
La seconda modalità sono i pochi colloqui autorizzati che gli procurano momenti di eccitazione e di gioia intensa: «Quando me ne sono tornato quassù in cella, ho camminato su e giù per un’ora […] finché ho dovuto ridere di me stesso quando alla fine mi sono accorto che di tanto in tanto mi dicevo, in modo ripetitivo: “E’ stato davvero bello!”».
Infine, ma non ultime per importanza, le lettere: quelle scritte ai familiari e all’amico Bethge, dove emerge la sua capacità di mettersi in relazione con l’altro e con le situazioni del suo interlocutore; e quelle ricevute, che sostituiscono una gioia grande: «Qui in cella non c’è nessuna gioia più grande delle lettere»; e, insieme, un’esperienza di libertà: «E’ come se la porta della prigione si aprisse per un momento e uno tornasse a vivere insieme per un po’ la vita di fuori».
Ma quali sono i nuovi significati del legame con l’altro che Bonhoeffer scopre nel tempo della solitudine?
Per rispondere a questa domanda ci possiamo rifare ancora alla lettera del 5 settembre. Qui egli scrive che, durante i bombardamenti su Berlino, il pensiero va esclusivamente alle «persone senza le quali non potremmo vivere» mentre viene meno la preoccupazione per se stessi. Bonhoeffer si lascia interrogare da un’esperienza segnata dal pericolo imminente, come quella dei bombardamenti, in cui maggiormente ci si preoccupa della sorte degli altri, e risponde accorgendosi di «come la nostra vita sia intrecciata con quella di altre persone, anzi, di come il suo centro stia al di fuori di noi stessi, e del fatto che noi non siamo affatto dei singoli». In questo dialogo tra l’evento, il suo cuore e i sentimenti che in esso l’evento attiva, avviene la scoperta di un significato ulteriore da dare all’esperienza del legame con gli altri. Bonhoeffer scopre che il legame si giustifica a partire dalla comune appartenenza ad un’unica realtà e si realizza nell’appartenenza reciproca. L’esperienza, tipica di chi si trova in carcere, di dover dipendere in tutto dagli altri oltre che suscitare quel senso di impotenza già notato più sopra, in Bonhoeffer dà vita anche ad un altro percorso: quello in cui la propria condizione di vita viene scoperta come debitrice nei confronti degli altri di una profonda e continua gratitudine, che lo rende più sensibile e attento alla vita altrui.
Nel segno della gratitudine
A conclusione di questa prima tappa, possiamo dire che l’atteggiamento che Bonhoeffer matura più di altri in questa circostanza è la gratitudine.
Gratitudine come frutto del dialogo tra mondo-là-fuori e mondo-qui-dentro. In questa circolarità di situazione e reazione affettiva il passato è recuperato nella continuità con il presente sullo sfondo di un orizzonte di senso più ampio, al quale questo dialogo rimanda e il legame con gli altri non è interrotto, ma si realizza attraverso affetti più autentici e profondi.
La gratitudine, come accoglienza della vita in tutta la sua ricchezza, fa ugualmente da sfondo ad una bellissima lettera datata 23 gennaio 1944, che sintetizza le riflessioni fin qui condotte. In questa lettera, infatti, il valore del legame con l’altro si accompagna all’accettazione della vita, con tutta la molteplicità di significati che essa può offrire.
L’impotenza di fronte agli avvenimenti imprevedibili che provocano la separazione dagli amici più cari, permette a Bonhoeffer di scoprire che il legame con l’altro si fa ancora più solido quando c’è un rimettersi reciproco nelle mani di Dio: «Affidarci reciprocamente a queste mani è senz’altro il grande impegno delle settimane e forse dei mesi a venire, per voi, per noi».
La scoperta complementare è che, per quanto «ci possano essere molti fallimenti, molti errori, molte colpe umane, nei fatti stessi c’è Dio». Questa consapevolezza è per Bonhoeffer la fonte che fa accettare e attraversare le situazioni della vita che si presentano a noi, nel loro intreccio di gioia e di dolore: «Rinunciare a gioie autentiche e a una vita piena per evitare la sofferenza non è sicuramente cosa cristiana e nemmeno umana».
Questa ricerca e fedeltà a ciò che rende piena e significativa la vita, non esonera però dalla concomitante sofferenza:
Credo che onoriamo meglio Dio se conosciamo, sfruttiamo e amiamo la vita che egli ci ha dato in tutti i suoi valori e perciò se avvertiamo anche acutamente e con franchezza il dolore per quei valori della vita che sono stati compromessi o perduti […], piuttosto che restando insensibili ai valori della vita, in modo tale da poter essere insensibili anche nei confronti del dolore.
Con questa affermazione, Bonhoeffer intende mostrare che, accogliendo l’esperienza di disincanto del carcere in tutte le sue dimensioni, la sensibilità si affina e rende più attenti e ricettivi nei confronti dei valori della vita e del dolore stesso. Nasce un nuovo approccio alla vita e al modo di pensarla; si apre lo spazio per una risposta più globale alla vita stessa che parla nella «situazione assolutamente nuova» della prigionia, e che Bonhoeffer metterà maggiormente a fuoco nelle riflessioni successive.
Tre utili indicazioni
Dopo aver percorso una parte dell’itinerario di Bonhoeffer in carcere, cosa c’è di interessante da raccogliere per il compito di gestire l’ora del disincanto?
La prima cosa è il valore dello stare, del rimanere ed abitare le situazioni in cui ci troviamo, soprattutto quelle dalle quali preferiremmo fuggire perché segnate da una buona dose di sofferenza e di fatica. Bonhoeffer ci rimanda alla fecondità dell’abitare in maniera creativa il limite e la contraddizione, mettendo in dialogo quello che in una data situazione si cerca e quello che la situazione stessa ci offre. Per condurre questo dialogo è necessaria una profonda e continuata capacità di ascolto di se stessi e della storia che viviamo: in questo modo si può attivare una comprensione più ampia del vissuto.
La seconda cosa è il frutto maturo dello stare che consiste nella gratitudine, soprattutto verso gli altri. Vi è qui una scoperta importante: quella del sentirsi debitori nei loro confronti, della dipendenza dagli altri; non vista come un laccio o un impedimento all’esercizio della libertà, ma come la possibilità di maturare una più acuta sensibilità e attenzione alla vita altrui, spostando il baricentro della propria vita da se stessi all’altro.
La terza ed ultima cosa che possiamo raccogliere è la presenza dell’orizzonte di senso globale che, per Bonhoeffer, è dato dalla fede in Gesù Cristo. Innanzitutto, l’orizzonte di senso permette di dare un significato alle esperienze della vita, di riannodare i fili interrotti dell’esistenza e di suscitare i valori dello stare e della gratitudine nell’ora del disincanto. E ciò avviene grazie al contenuto stesso di quest’orizzonte, per il quale il Dio di Gesù Cristo è colui che sta fino in fondo nella nostra condizione umana, che sulla croce si è caricato dei nostri peccati e ha portato su di sé anche il limite estremo della vita. Inoltre, l’orizzonte di senso si presenta come direzione e meta verso la quale orientare le scelte della nostra vita. L’ora del disincanto è in realtà l’ora dell’appello, della chiamata ad una consegna più libera e consapevole della propria esistenza all’Altro: è maturare un affidamento totale a Dio, nella partecipazione alle sofferenze di Cristo, nella conformazione al suo «esserci-per-gli-altri» per diventare veramente responsabili, capaci di prendersi cura dell’altro da sé in forma stabile e con larghezza di cuore.
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