I casi tragici: quando vivere il valore sembra impossibile
Tredimensioni 2(2005) 1, 27-37
Succede che nella vita concreta non si sia più in grado di onorare gli ideali nei quali tuttavia ancora si crede e ci si riconosce. Si vorrebbe, ma non si riesce. Al di là dei motivi soggettivi di tale impossibilità, e anche quando già riconosciuti e analizzati, resta il fatto che la persona deve amaramente constatare: «credevo, speravo di… e invece mi ritrovo a…». L’ideale disonorato è la fatidica spina nel fianco che obbliga a camminare con la schiena curva e sentirsi umiliati al cospetto di sé prima ancora che degli altri.
Alcuni esempi. Il caso dell’ideale impossibile: in certe situazioni, il pentimento -nella sua definizione classica di dolore per il peccato commesso e proponimento di non commetterlo più- appare impossibile da praticare e il prometterlo suona dichiarazione formale per ottenere un’assoluzione a buon prezzo, dato che nulla garantisce di non ricadere più. Il caso dell’ideale ricuperato ma fragile: dagli errori passati sono uscito, ma il loro ricordo suscita ancora quella certa nostalgia che mi inclina a rimpiangere ciò che pur depreco anche se la sua reiterazione già l’avverto come fiele. Il caso dell’ideale alternativo, quello ritenuto oggettivamente discutibile ma per me sommamente benefico: come sentirsi nel secondo matrimonio un irregolare quando si sta dimostrando felice sia da un punto di vista umano che spirituale, mentre il primo era un disastro? Il caso della perennità spezzata: se un prete non riesce a vivere il celibato è consigliabile che si spreti o che si rassegni ad un umiliante compromesso? Che dire al marito irrecuperabilmente infedele, al drogato di viedogiochi o di internet? E così via…
Due attenzioni
Diciamoci subito che «la risposta» non c’é perché la vita concreta supera ogni tentativo di ridurla a criteri predefiniti di gestione. Ma qualche criterio bisogna pur averlo perché in casi del genere il consigliere deve fare una scelta: opta per orientare la persona verso una stretta aderenza alla legge o preferisce che sia capace di violare la legge se ha buone e oneste ragioni per farlo?
In questi casi estremi il consigliere è da solo, davanti al soggetto concreto, e con la responsabilità di scegliere una o l’altra linea d’aiuto con esiti ben diversi sulla formazione/deformazione della coscienza altrui. Non è però abbandonato a se stesso, in balia del proprio arbitrio. È sorretto dai due criteri complementari del vangelo. Da una parte: «farisei ipocriti che legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito». Dall’altra: «non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti… Non passerà neppure un iota o un segno della Legge, senza che tutto sia compiuto».
Il consigliere si muove, dunque, su due binari: quello delle forze di cui il soggetto attualmente dispone e quello del rispetto dell’ideale. Ognuno di essi sottende una strategia propria: promuovere adesioni personali e garantire scelte obbedienti. In quanto promotore di adesioni personali, il consigliere è come il genitore che vorrebbe che suo figlio arrivasse a scegliere da sé e liberamente ciò che il suo genitore apprezza, correndo il rischio che questo risultato possa non realizzarsi. In quanto chiede obbedienza è lo stesso padre che per proteggere suo figlio da errori futuri, gli raccomanda insistentemente di avere anche lui quei valori che già si sono dimostrati garantiti nella vita del genitore stesso e spinge perché vengano osservati anche dal figlio. L’ottimo sarebbe che i due binari procedessero insieme: il padre incoraggia il figlio a diventare autosufficiente e da questa posizione di autonomia, accettare liberamente il suo insegnamento. Nei casi che stiamo esaminando, questo intreccio non si dà.
Evitare due errori
Quando l’incontro fra ciò che si può e ciò che si vorrebbe è compromesso, il consigliere può farsi inconsciamente risucchiare dall’aspetto davvero tragico della situazione e arenarsi nelle secche di un’alternativa sterile: rigidità nel pretendere la oggettività comunque obbligatoria con conseguente condanna di chi non la può rispettare (padre irritato per defezione del figlio), oppure riduzione dei giudizi di valore a pure decisioni del soggetto con conseguente legittimazione delle conclusioni che quello tira (padre complice).
La scelta di uno o l’altro di questi estremi è senz’altro assurda se fatta per spontaneità soggettive di carattere, (c’è chi è portato per indole ad essere duro e chi comprensivo!). Scelta assurda perché ciò che è consono alla propria sensibilità non è detto che sia consono al vero bene dell’altro (aiutare non sempre significa seguire il nostro modo spontaneo di aiutare). Lascia comunque perplessi anche quando si regge su argomentazioni teoriche (di tipo teleologico e deontologico), in sé legittime ma che saltano la considerazione del bene reale del singolo soggetto esistente. È sterile scegliere se schierarsi con il partito della manica larga o con quello della manica stretta. È triste vedere che i casi tragici si rivolgono pregiudizialmente a preti schierati in loro favore ed evitano quelli che hanno la tessera del partito opposto. Umiliante il discorso: «sei gay? Vai dal prete A che la pensa come te, ma non dal B che ti scortica vivo».
Non esistono situazioni difficili e dunque da trattare in serie con criteri standard di sensibilità personali o di dottrina ai quali omologare tutti. Nel concreto esistono persone singole e incomparabili alle prese con situazioni difficili e dunque, da trattare individualmente che però non vuol dire a regime speciale per ognuna. Nella vita, non esiste l’errore ma la persona che erra.
Introdurre il terzo elemento
La falsa alternativa fra condannare e legittimare non si risolve se non introducendo un terzo elemento che è il dato della Rivelazione e della fede. Nei casi tragici, più che mai, bisogna andare oltre (che non significa non considerare) la pura imperatività della norma e oltre la considerazione delle forze attuali del soggetto (che non significa non tener conto della persona) per affrontare, invece, la situazione partendo dal criterio primo che è la Rivelazione. I personaggi, perciò, non sono due (soggettività e norma) ma tre.
Il criterio del terzo elemento dice che la configurazione dell’impegno etico si decide dentro all’orizzonte di Dio che incontra l’uomo, incontro trasformante che rende possibile un cuore nuovo. Questa certezza (che non è un semplice auspicio) della qualità attiva dell’incontro deriva dal credere in Dio e non dalla situazione ed è credibile anche quando la situazione non la documenta né la legittima.
Più concretamente: il primo passo non è «allora, che faccio?», né «sono in regola o no?», né «posso ancora andare a Messa?» e neppure cospargersi la testa di cenere o, all’opposto, difendere a spada tratta la propria conclusione. Non si parte dall’analisi della situazione ma dalla consegna della stessa allo sguardo di Dio, insieme (e non in alternativa) giudice e misericordioso. Prima e indipendentemente dalla conclusione di rimediare o di giustificare la situazione ci vuole l’atteggiamento previo di affidamento fiducioso al giudizio misericordioso di Dio.
Don Corrado fino all’età di 35 anni è riuscito a rispettare il suo celibato. Adesso non ce la fa più e, rotta la diga, si è buttato in un nomadismo sessuale che gli fa ricuperare il tempo perduto.
Preso dal rimorso va a confessarsi da un prete sconosciuto che dopo avergli dipinto il giudizio di Dio con tutte le fiamme e fuoco dell’inferno in cui il povero Corrado è precipitato, conclude: «tutto da rifare!».
Dopo, va da un altro prete che, mano nella mano, gli dice che Dio è misericordia, nessuno è perfetto e anche lui deve fare come può.
Indeciso se credere a chi gli ha detto che è spacciato o se considerarsi ancora fra i salvabili, va dal suo vescovo, gli spiega la situazione e conclude: «mi dica lei che fare, accettarmi così o spretarmi?». Che dirà il vescovo? Purtroppo, a volte dipende da che tipo è: se progressista o conservatore.
A questo punto, si potrebbe (anzi è utile) analizzare che cosa ha portato ieri don Corrado a diventare prete e oggi ad essere sessuomane. Non è secondario se, ad esempio, ci dice che finora era riuscito a garantire il suo celibato con la tecnica diventata anche il tema di battaglia della sua predicazione: la mortificazione raffredda l’arroganza dei sensi. È anche utile sentirci dire che adesso non cerca un partner ma la delizia di una libertà ricuperata. Tuttavia, in questa prima fase d’impostazione del problema, la cosa più importante è mettere il problema (da analizzare poi) nel suo giusto contesto che è quello di libertà dalle secche del si può/non si può.
Io procederei così. Don Corrado è in trappola. Ha detto a se stesso e al suo vescovo che i termini del problema sono il suo sì di ieri, il suo no di oggi e il dire invariato della chiesa. Quindi le domande trabocchetto sono: uscire o restare? Ufficializzare una situazione di compromesso o uscire inaugurando una vita di chiarezza? Restare o lasciare? Posta la questione in questi termini, Corrado si trova sotto un peso, un fato da scoprire. Quale sarà il suo vero DNA: quello di ieri o quello di oggi? Ora sul tavolo della sua vita ci sono due carte: quale quella vera e quale la falsa?
Ci vuole una cornice che liberi la situazione dallo stato di congelamento in cui si trova. Fra l’alternativa secca «tutto da rifare» o «si fa come si può» s’infiltrano delle domande rese possibili dall’introduzione del terzo elemento. Il discorso, allora, diventa più o meno questo: «Il giudizio di Dio c’è, non come intolleranza per i fatti commessi, ma come sferzo a non lasciarti trascinare dai fatti. La sua misericordia c’è, non come tollerante deroga ma come invito a lasciare aperto il cantiere per lavori in corso. Restare o uscire si vedrà; comunque sia, non dovrà avere il sapore di seguire succube un inesorabile destino. Sia che resti sia che lasci, qualcosa dentro di te deve mettersi in movimento, qualcosa che ti renda più buono». Senza questo terzo elemento non riesco a capire come il consigliere possa restare fuori dalla trappola dei partiti e liberarsi dalla sua.
Introdurre il terzo elemento significa togliere la situazione dal suo determinismo: né armadio ingombrante contro cui si va sempre a sbattere di notte, né contesto invidiabile di vita. È liberare Corrado dal sentirsi uccello in trappola ma anche dallo scambiare la gabbia in hotel a cinque stelle. Nel contesto dell’incontro attivo il dato non rimane come prima, c’è qualcosa che lo trasforma, lo cambia, lo tiene in movimento, anche se non si sa bene come. Nel problema insuperabile, ma da vivi.
Affidamento
Dunque, il punto di partenza che propongo é: affidarsi senza condizioni al Dio santo, e farlo con la fiducia altrettanto incondizionata nella misericordia di Dio, con la ferma speranza che il suo giudizio sia di grazia, pronunciato dal suo amore realmente capace di creare un cuore nuovo.
A chi si trova nei guai propongo: prima di ogni discussione sulla liceità o meno della tua condizione di vita, e prima di decidere come gestirla, affidala alle mani di Dio. Sospendi ogni tua valutazione e rimettiti a lui con tutta l’inestricabilità del tuo bene e del tuo male, sapendo che solo Lui conosce realmente il cuore dell'uomo. La tua situazione forse non é cambiabile, forse la soluzione che prenderai é valutata diversamente da te e dalla chiesa, forse è anche erronea: prima di tutto questo, chiedi a Dio l’assistenza alla tua esistenza minacciata e ferita della quale neanche tu conosci tutti i risvolti.
Dette così, senza poter incrociare gli occhi della persona in difficoltà, suonano belle ma vuote parole. In realtà sono parole pesanti come un macigno perché aggravano la situazione in esame: ciò che si affida a Dio non è soltanto la tragicità attuale («Signore, io più di tanto non riesco, pensaci Tu», «faccio ciò che la Chiesa disapprova, ma speriamo che Dio me la mandi buona», «ho peccato, sono disposto ad espiare per la vita»…). Ciò che si affida a Dio è la vulnerabilità insita all’esistenza stessa che nel guaio attuale ha preso dura esemplificazione. È dire: se anche non mi trovassi in una situazione così tragica come la presente, comunque mi ritroverei (io come -prima o poi- chiunque altro) in una tragicità altrettanto grave: il cuore umano naviga in una situazione liquida dove i confini fra giusto e sbagliato, bene reale ed apparente, lecito e illecito, fedeltà e trasgressione non sono percepibili tanto chiaramente, dove ad ogni movimento è possibile una deriva da una parte o dall’altra e anche quando si è trovato l’assestamento si tratta sempre di un equilibrio instabile che può fare maturare o crocefiggere. A Dio affido non solo la mia situazione attuale precaria ma questa connaturale vulnerabilità del cuore umano pronta ad affiorare ogni volta che la vita si fa seria.
Personalmente credo che anche quando la persona arrivi a fare scelte oggettivamente discutibili, possa rassicurarsi dell’onestà del suo discernimento se: 1) riconosce la propria scelta come una decisone ad alto rischio non garantibile con certezze matematiche ma di coscienza, 2) veglia perché il rischio influisca positivamente sul suo futuro. Può stare tranquillo perché non è la tranquillità del residente ma del pellegrino.
Condizioni per l’affidamento
Avere questo atteggiamento di base non è facile perché chiede di rinunciare ai tentativi di legittimare la propria posizione, tanto più da legittimare quanto più forte é il disagio per la stessa e la posta in gioco rischiosa. Esempi di auto-legittimazione: farsi forte della propria situazione per ridurre l’etica all’impotenza, legalizzare la propria posizione con le statistiche, i sondaggi e la vox populi, farsi paladini di coerenza contro gli incoerenti clandestini, falsificare la definizione di bene e di male per adattarla alla propria situazione, fare della propria scelta il criterio della verità sul bene così da sentirsi giustificato da solo senza ricorrere a Dio e alla sua luce, cercare alleati così da uguagliare verità con quantità, squalificare chi nella situazione simile ha fatto scelte diverse…. In positivo, rinunciare all’auto-legittimazione vuol dire riconoscere la propria fragilità umana (al di là della forma che oggi ha assunto), vedere nella propria situazione la conferma del proprio essere bisognoso di redenzione, mantenersi vigile sull’andamento delle soluzioni prese. Questo passaggio dalle garanzie umane all’invocazione è difficile per chi fa dipendere la propria stima dal perdono di nessuno. Chi riconosce la propria insufficienza e si affida alla misericordia di Dio è diverso da chi, per sentirsi a posto, cerca garanzie in ragionamenti giustificatori che lo immobilizzano nella sua scelta.
Fondamentale per l’affidamento è aiutare a vivere la situazione con mestizia. Intermedia fra negazione e rimorso (reazioni che bloccano la riflessione, impigliandola nella domanda «sono colpevole o no?»), la mestizia è il dispiacere che tiene vigilanti verso la soluzione migliore (aprendo alla domanda: «come posso migliorare?»). La mestizia apre al mettersi davanti al Dio misericordioso. Il suo diniego apre alla legittimazione orgogliosa di sé. La mestizia è piangere con le lagrime di S. Pietro, che constatando il suo amore perdente recupera l'amore che salva.
Una terza condizione è riflettere sul criterio ultimo in base al quale definire di successo la scelta adottata. Il criterio è il dono di se stessi a Dio gradito. Qualunque linea si scelga, quando nel tempo e a ritroso la si dovrà giustificare a se stessi e rispondere alla domanda «perché ho fatto così anziché…», la risposta di garanzia non potrà essere in termini di necessità (non c’era altro da fare), di razionalità (era logico così), di opportunismo (era più facile), di fatalità (era scritto nel destino),… ma l’aver scelto quella linea perché si pensava e si pensa la migliore possibile per non restare mai troppo indietro rispetto all’amore ricevuto da Dio. Qualunque essa sia, una scelta compiuta in vista del proprio io può portare solo ad un errore più grosso.
Il perché dell’affidamento:
«Deus impossibilia non iubet, sed iubendo monet et facere quod possis et petere quod non possis et adiuvet ut possis».
Dio non comanda cose impossibili, ma comandando ti incita a fare ciò che tu puoi, a chiedere ciò che non puoi e aiutarti affinché tu possa.
(Concilio di Trento, sessione IV, Decreto De justificatione, DS 1536)
Caratteristiche dell’affidamento
Si potrebbe obiettare: affidarsi é comodo! Basta fare sdolcinate dichiarazioni d’amore a Dio e intanto seguire i propri comodi. Affidarsi è un accorgimento elegante per la legittimazione delle proprie scelte con la benedizione di Dio!
Invece, questa capitolazione incondizionata al giudizio di Dio, questo lasciarsi giudicare solo da lui é un atto estremamente impegnativo per chi lo pronuncia. Infatti se si lascia a Dio il compito di valutare, all'uomo rimane un altro compito: sospendere la propria valutazione. Se é Dio a dare la parola definitiva sulla mia vita, non la posso più dare io. Io devo lasciare in sospeso il giudizio, devo relativizzare ogni mia conclusione. In pratica ciò vuol dire: che ne so io se il mio secondo matrimonio é meglio del primo? Come posso fidarmi dei miei giudizi? Una cosa so: che il mio cuore rimane un inestricabile guazzabuglio di bene e di male e non posso sapere con certezza se una mia azione viene dalla parte buona o da quella cattiva. A Dio il compito di valutare, a me l’accettazione della mia ambiguità insanabile e sempre recidiva.
Sospendere il mio giudizio per rimettermi a quello di Dio comporta:
· Riconoscere che non è possibile individuare esattamente il traguardo insuperabile delle mie possibilità. Continuano ad esserci possibilità ancora non utilizzate dalla mia libertà. Non posso vivere di rendita o procedere con il motore in folle. Rimango vigile, aperto a cogliere ogni ulteriore possibilità di capire, scoprire, crescere. La questione «quali sono le mie possibilità?» rimane aperta.
· Il riconoscimento della propria situazione instabile non vuole demotivare ma incrementare la cura per la stessa: conservarne un’acuta analisi, illuminarla meglio, darle il nome che le appartiene, proteggerla dal degrado.
· Dalla libertà con cui Dio guarda la mia situazione ne deve derivare una mia libertà di sguardo: non ho più bisogno di nascondermi la mia difficoltà, posso guardarla in faccia senza inorgoglirmi e senza disperarmi, chiamarla con il suo vero nome, migliorarla se non proprio eliminarla.
· Non posso teorizzare la mia scelta di fronte agli altri. Se lascio a Dio il giudizio, non sta a me rivendicare la legittimità morale delle mie scelte, quando non sono del tutto legittime forse non per me ma per chi ha, almeno come me, la capacità di valutare anche se diversamente. La fragilità ha bisogno di comprensione, condiscendenza e perdono ma non gode di una legittimazione normativa da parte del gruppo di appartenenza che non si riconosce in tali decisioni.
· Se anche arrivo ad essere in conflitto con norme e comandamenti della chiesa, non posso sbrigativamente concludere che io ho ragione e lei torto. Quelle norme sono state fatte per proteggere e garantire gli ideali del vangelo e quindi (salvo giudizio migliore) sono valide, anche per me, anche se io non riesco a viverle. Sospendere il proprio verdetto significa dunque accettare la validità di quelle indicazioni e accusare invece la propria attuale incapacità a viverle.
L’affidamento è la pesantezza di rimanere nella provvisorietà:
1. Conoscere la differenza fra valore (fine) e norme (strumenti).
2. Il valore è categorico in quanto si pone come garante della piena realizzazione della persona.
3. Il compromesso sul valore é minaccia per la piena realizzazione della persona.
4. Considerate le circostanze e le forze del soggetto, il valore sopporta ma non legittima la sua non completa realizzazione.
5. Tale sopportazione non può contemplare il ripudio del valore stesso.
6. Nel frattempo, cercare di innalzare le proprie capacità morali anziché abbassare il valore.
Tre riflessioni finali
¨ Per quanto siamo esperti e pensiamo correttamente, non possiamo prevedere quale sia l’esatta soluzione che il soggetto deve adottare. La soluzione la deve trovare lui, anche se noi ci manteniamo il diritto di verificare con lui il processo (percorsi e modalità) che ha usato per arrivare a quel tipo di soluzione anziché un altro. La valutazione non riguarda l’esito ma il modo usato per gestire la difficile armonizzazione fra traduzione soggettiva e rispetto dell’oggettività, che non sia uno sbrigativo annullare l’una o l’altra.
¨ Il nostro ruolo può anche essere quello di constatare che il soggetto sarà così come lui ha pensato. Non è il nostro ideale che deve essere realizzato, ma l’ottimale per colui che aiutiamo. A volte l’ideale da lui scoperto é più basso di quello che gli auguriamo noi. Altre volte è migliore di quello da noi proposto. Altre volte dobbiamo ammettere che ci sono soluzioni che per alcuni sono equilibri per non cadere mentre per altri sarebbero occasioni di degrado. Vorremmo che la soluzione trovata fosse vissuta nella consapevolezza e qualche volta nella sofferenza di un’accettazione di sé che sappia restare in tensione verso il meglio ma che pure non perda la speranza di fronte all’insuperabile.
¨ Visto che Dio non ha delegato in toto la chiesa a gestire il rapporto che con Lui ha la persona umana, al consigliere che ripetutamente viene a contatto con questi casi difficili rimane il compito di verificare se le attuali soluzioni pastorali siano sufficientemente capaci di aiutare (nel senso spiegato) chi è in situazione drammatica. Le sue eventuali perplessità vanno sottoposte alla considerazione dei teologi e dei pastoralisti, ma non al soggetto attualmente nei guai, nel qual caso avrebbero l’effetto di relativizzare il magistero anziché aiutare quest’ultimo ad affinare il proprio servizio all’uomo.
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