Giovani e volontariato: avventura che passa o esperienza che forma?
Impegnarsi (anche responsabilmente) in un’attività a servizio dei vari bisognosi di turno nel corpo o nello spirito e fare della propria vita un dono non sono la stessa cosa, non stanno sullo stesso piano. Fare della propria vita un dono passa, certo, attraverso la capacità di essere responsabili. Ma procede oltre. È il frutto maturo di un adeguato sviluppo del sé della persona nelle sue varie dimensioni. Quando un giovane dà del proprio tempo agli altri fa una doppia esperienza: si vive a un tempo bisognoso degli altri e ricco di doni per gli altri. Ma se cresce fino in fondo, quel giovane si va affermando divenendo a sua volta sorgente di dono di sé.
Dall’esperienza di volontariato ci si attende un frutto di personalità che duri anche dopo: da impegno temporaneo a impegno di vita, dalla logica della professione a quella della vocazione e missione, dal mobilitarsi a favore di persone e situazioni di bisogno alla scoperta della gioia del dono di sé permanente.
Dalla responsabilità al dono di sé: passaggio non automatico
Impegnarsi e compromettersi non sono la stessa cosa. Infatti c’è modo e modo di impegnarsi. Alcune modalità spingono l’impegno a evolvere in dono di sé. Altre lo congelano nell’esperienza in corso senza un seguito significativo. Altre ancora lo disperdono, lo rendono infruttuoso. Alcuni di questi congelamenti sono insiti al modo stesso di pensare il volontariato:
- nella mentalità comune: tempo sprecato, sottratto alla propria professionalità e guadagno («assistere gli anziani? Meglio uno stage negli USA per il mio perfezionamento!»); attività di passaggio da usare con la mentalità dell’usa e getta (disse una mamma al prete: «quest’estate mio figlio non ha niente da fare, gli trovi qualcosa lei; ma l’hanno prossimo, quando dovrò decidere quale università fargli fare, ci penserò io!»), diversivo temporaneo e gratificante tanto quanto ciò dura…
- nel volontario stesso: un modo di sperimentarsi passando di servizio in servizio fino a che va; attività part-time da ri-discutere appena si rende esigente e frustrante; parcheggio di sosta in attesa di trovare un lavoro serio; la buona azione di gioventù; soluzione filantropica che piace ai giovani ma con difficoltà a motivarla sul piano soggettivo o religioso…
Di qui un serio problema formativo: oggi si insiste molto sul valore pedagogico del volontariato, ma è proprio vero che fa automaticamente crescere il giovane nel dono di sé? Non rischia di essere uno strumento carico di attese magiche? Il volontariato educa certamente alla responsabilità e all’impegno, ma anche al passo successivo del dono di sé? Quali attenzioni pedagogiche occorre avere perché il volontariato porti al dono di sé stabile e duraturo?
Lasciarsi sedurre da una passione
«Il dono di sé presuppone che il bisogno di relazione sia in noi attivato, intendendo per relazione non il banale stare con un oggetto, bensì il riconoscimento che l’io stesso non può ritrovarsi se non appartenendo… Lo stadio ultimo della maturità non è la razionalità ma l’affettività condotta al suo estremo grado di vita come dedizione di sé a un oggetto sommamente amato. Il sentirci al caldo non viene dalla logica, ma dalla passione per la preziosa perla trovata che non si è più disposti ad abbandonare per nessuna ragione»
Ci vuole dunque, una previa disponibilità affettiva a lasciarsi sedurre da una passione. Il volontariato –come ogni esperienza- non è qualcosa di catapultato sul soggetto al quale lui reagisce in seconda battuta. L’insegnamento che può dare non appartiene al fare ma alla previa apertura del soggetto a quel fare. Qui è la differenza fra responsabilità è dono di sé. La prima richiede elementi di intelletto e volontà (impegno, serietà, senso del dovere, programmazione…). Il dono di sé richiede l’attivazione dell’affettività nel suo grado più alto di affidamento. «Qui c’è un salto. Nella dedizione di sé la componente affettiva è altamente attivata. Le azioni di responsabilità diventano simboliche, ossia vissute nel quadro di una consegna sulla quale si è disposti a giocare il proprio onore perché è proprio da questa consegna (e non dall’impegno preso) che si fa dipendere la propria identità e su di essa si misura la propria dignità. E’ la differenza che c’è fra l’essere un bravo medico e l’essere una brava persona che fa il bravo medico. E’ la differenza che c’è fra il genio e l’apostolo: il primo persegue un’indagine intellettuale o al massimo estetica, il secondo è innamorato. La responsabilità si evolve in dedizione di sé quando interviene un nuovo tipo di affettività: non più solo l’impegno verso di sé e gli altri, ma il legarsi a una scelta di vita. Chi fa il salto capisce che un conto è amare e un altro compromettersi ad amare»
Scoprire la portata di ciò che si fa
Fare del volontariato serve a Paolo per imparare a vivere? Dipende.
Anzitutto deve iniziare rispettando il senso della cosa. Non può farlo per mettersi in mostra, girare il mondo, uscire dalla noia.., ma per rispondere ai bisogni altrui. Se fa così parte bene: rispetta il senso della cosa.
Cammin facendo deve fare un passo ulteriore: scoprire nuovi risvolti dell’attività non intuiti all’inizio: mettersi a disposizione dell’altro... + dell’altro che ha bisogno... + dell’altro che è uno come me... + che forse è migliore di me... +++ ... +++ ... Paolo cresce non solo quando ha impostato bene il senso del suo fare ma quando, insospettito e curioso, intravede che ci può essere dell’altro: incontra il bisogno del tu... poi il tu che ha bisogno... poi il tu che è solo tu... poi... poi… Ogni volta che si lascia incuriosire per un passo ulteriore Paolo crescerà. Se nell’esplorazione si ferma troppo presto rischia di fare un’esperienza giovanile, bella ma da dimenticare quando diventerà «serio». Se si accontenta del significato iniziale perde tempo.
Il volontariato gli servirà per diventare, anche, un bravo uomo? Sì, se prosegue la scoperta fino in fondo. A volontariato finito, rimane un buon uomo per la vita se esercitandosi come volontario aveva capito che quell’esperienza rimanda a una totalità in essa contenuta ma di ordine più universale. Superando se stessa, è diventata occasione per capire cos’è la vita e trovare qualcosa a cui fare dono di sé.
L’esperienza come portavoce di un appello più profondo, oltre l’immediato.
È utile quell’esperienza che parla di chi la fa. Facendo posto all’altro bisognoso, il volontario si sente risvegliato nel meglio di sé, nella sua generosità, pur se a volte non ben decantata. Può chiedersi: «Che cosa di me vive, viene alla luce prende corpo tramite questa esperienza? Che cosa di me essa chiama in campo, sollecita?». La domanda dell’esterno rivela il volontario a se stesso, lo aiuta a conoscere meglio la sua persona nei vari suoi pregi e carenze. Può anche rivelargli la sua vocazione e missione.
Ma ciò non basta, perché la nuova coscienza di sé può fermarsi a livello di curiosità, di cronaca, di avvenimenti e di relazioni, quindi volatile e passeggera. È quello che succede con frequenza: finita la parentesi del volontariato, è finita la gita panoramica nel mondo degli ideali e la vita «concreta» può iniziare.
L’esperienza deve allora parlare di un significato che la supera. Non è qualcosa di chiuso in sé ma finestra che lascia trasparire che ci può essere qualcosa che vale per sempre, qualcosa di assoluto. Si struttura, infatti, su due livelli:
‑ La materialità bruta, la cronaca, la fattualità, ciò che si vede, si fa con la volontà, si controlla razionalmente e si racconta. A questi dati bisogna rispondere con efficienza (è il livello in cui si gioca la responsabilità).
‑ L'appello, un significato per la vita che si intuisce con la mente e con il cuore (è il livello che introduce la domanda sul dono di se stessi).
Il primo livello è dell’oggi e passa. Il secondo è legato alla vita matura e dovrebbe rimanere. Il particolare tipo di volontariato che si fa è secondario, meno reale e concreto del significato esistenziale che esso veicola. Se il ragazzo non impara questa lettura, del suo volontariato in Kenya si ricorderà solo delle fotografie scattate, come il turista che in Kenya è andato per un safari e ora è rientrato dalle ferie (è la mentalità suddetta dell’usa e getta). Se il volontariato non serve per rispondere alla domanda sul senso della vita è un utile diversivo, utile per gli altri un po’ meno per chi lo fa.
Fare esperienza non è farla ma capirla e sentirla. Sul versante soggettivo, richiede la disponibilità a lasciarsi coinvolgere, leggersi e leggere. L’esperienza fa crescere nella misura in cui mette chi la fa nelle condizioni di sottoporsi ad un cambiamento migliorativo e avvia un effetto di crescita nei valori che avrà i suoi frutti nei tempi necessari. Ad esempio, la nuova vita di matrimonio funzionerà se i novelli sposi impareranno a dividersi i compiti di casa e ciò li farà crescere se, svolgendo quei compiti, si sentono spronati ad aprirsi sempre più alla loro intimità, altrimenti hanno organizzato una piccola azienda a gestione familiare. Così, la vita del religioso è maturante se nel rispondere agli appelli degli altri sa anche implicarsi in prima persona con ciò che gli appelli risvegliano. Persone così, fanno, ma -con in più- la capacità di…., il gusto di…, l’attitudine a…
Per arrivare al risultato sperato propongo tre attenzioni: aiutare il volontario ad (1) aprirsi (2) ad un’esperienza fondante che (3) influisca sul futuro.
Essere aperti all’esperienza
Qui l’attenzione è sul soggetto, sul suo esserci in ciò che fa. Il che significa percepire che si sta toccando un valore importante per il proprio io. Se non c’è questa partecipazione diretta in ciò che si fa, l’esperienza rimane un semplice ruolo, svolto anche con correttezza e impegno ma terminato il quale, la persona ritorna nel suo mondo di prima dopo un’amena deviazione.
* La presenza affettiva ed effettiva all’esperienza significa «sentirla», a livello emotivo proprio della sensibilità immediata (mi piace), intellettuale (idee da portare) e di volontà (opere da fare). Tutto questo, però, perché ci si sente coinvolti nell’identità di sé e non per obbligo contrattuale o scrupolo di coscienza. In quel fare prende forma un investimento di sé, s’intravede un’energia che dà luce, forza e gusto alla propria vita. C’è gente che fa e fa anche bene e poi, per miglioria, dice «bisognerebbe fare…, penso che sarebbe utile…, io propongo che noi…, si dovrebbe pensare anche a…» ma alla replica «allora, chi inizia?» i primi a nascondersi dietro alla lavagna sono proprio loro.
* C’è energia personale se in quel fare si sa intravedere un valore in esso contenuto ma non esaurito. Un fare non fine in se stesso ma in quanto incarna un bene. Un fare simbolico che nel dire di sé (aiutare gli anziani) propone un valore oggettivo più ampio e mete ulteriori estrapolabili da quel fare contingente (scoperta di un mondo diverso dal mio e che neanche immaginavo che esistesse). Un’esperienza così provoca l’esperienza del valore.
* L’esperienza di valore ha un effetto eco sulla vita del soggetto. Ciò avviene nella misura in cui si incontrano e interagiscono, a livello di domanda e di offerta/proposta, i beni valore e i bisogni centrali della persona. Si tratta del bisogno di senso, di valore di sé, di riconoscimento affettivo, di autotrascendenza… (lavorando con gli anziani, sono venuto a contatto con un mondo nuovo e ho imparato ad aprirmi ad uno stile di vita non più rinchiuso nella stretta cerchia dei miei omologhi).
Esserci in qualcosa che vale
L’esperienza insinua il sospetta di nuove possibilità di vita se, anche in se stessa, ha un certo spessore. È l’aspetto della qualità di ciò che si fa. Infatti, anche ammesso che il soggetto sia aperto, non tutte le esperienze lo fanno crescere. Alcune sono dei trastulli divertenti, mortificanti o avulsi dalla vita. Dobbiamo distinguere tra esperienze tecniche e fondanti. Tra di loro c’è una differenza qualitativa.
Per esperienze tecniche si intende il fare qualcosa mirato a un risultato suo proprio e immediato. Per esempio, organizzare l’incontro di gruppo con sussidi, cartelloni, fotolinguaggio; suscitare l’interesse con giochi di ruolo, simulate o drammatizzazioni; preparare i canti della liturgia… Questo fare che si concentra sull’aspetto operativo resta fine a se stesso, e quindi educativamente sterile, se non viene raccordato con i valori perseguiti e con i bisogni di base interessati. Tutto riuscito, tutti contenti per il bel regalo incartato bene ma a casa si scopre che è una scatola vuota: nessuna riflessione in più se non quella di buttare via scatola e carta luccicante.
Le esperienze fondanti vogliono invece suscitare:
- il senso di sé come realtà positiva e limitata, per poi trasformare
- l’incontro con l’altro come luogo di vita e complementarietà
- l’apertura progressiva al reale e alle sue dimensioni
- l’esercitarsi a pagare di persona
- la solitudine della responsabilità
- il cercare un fondamento valido della vita e possibilmente assoluto
- la bellezza strutturale e la debolezza della condizione umana e l’invocazione di un Salvatore.
È fondante l’esperienza:
* Diretta, quella che accende le energie. «Se mi dici una cosa posso dimenticarla. Se anche me la mostri può darsi che me la ricordi. Ma se mi coinvolgi la capirò senz’altro!» (Tagore). Il contrario sono le iniziative fatte per tradizione, per moda, per non scontentare se non si fanno, per sentito dire, quindi fatte senza scomodarsi più di tanto e con il tendere al ribasso.
* Eloquente, capace cioè di attivare più ampie consapevolezze di sé, dell’oggetto e della realtà. Si tratta di una trasformazione del campo percettivo. Come dice il linguaggio corrente: dare aria al cervello anziché partire con la testa nel sacco e ritornare con la testa in una bottiglia. Se aiuto il povero dovrei imparare che il povero non è solo povero, che la povertà non è solo quella che sto curando io, che nella vita c’è una povertà da riscattare e una da sopportare, che io sono povero in altra versione… Se vado dai musulmani devo superare i miei pregiudizi senza passare all’esaltazione della loro cultura. Insomma, eloquente di una mentalità più «cattolica» cioè universale (che tale è perché diventa più profonda e non più relativista).
* Motivante cioè capace di condurre il soggetto a giustificarsi il perché delle sue azioni. Un perché che trovi la risposta ultima nei valori già tante volte sulla bocca ma ora scoperti come il sale dell’agire. Dovrà perciò essere esteriore ed interiore a un tempo. Non basta un puro fare, un formalismo. Bisogna che il soggetto prenda coscienza e contatto personalmente con i valori, se ne renda conto direttamente, li rapporti con la sua realtà personale più profonda.
Un buon segno del potere motivante dell’esperienza si ha quando il ragazzo si comporta con disponibilità educativa. È l’apertura d’animo, il contrario della ristrettezza tipica di chi, ritornato a casa, dice «nulla di nuovo; tutto già previsto; lo avevo già detto io che…».
Utili domande di verifica: perché dice di sì e perché si rifiuta? Quando ha paura, si ritrae o si prepara meglio? Quando si tratta di dire cose serie, usa un linguaggio personalizzato/convinto o le solite frasi fatte? Dopo l’esperienza, riesce a ridirsi meglio ciò in cui crede? È indolente, contratta, tende al minimo? Si lascia verificare?
Lo sbocco al dono permanente di sé
Qui c’è un passo ulteriore. Il lettore avrà già capito che quando l’esperienza si svolge nel ritmo detto, conduce, senza bisogno di sforzarla, al «momento della verità». Scopre le carte sul tavolo e fa vedere come si chiama il gioco che si sta giocando. L’esperienza assume un aspetto –per così dire- denunciatario. Mette a nudo il soggetto stesso circa la sua attuale logica di vita.
Attivare le energie, allargare la mente, darsi un valore fondante, piano piano non può non insinuare la curiosità: «e tu, di che pasta sei fatto?». Interroga sull’attuale (e spesso non esplicito né consapevole) progetto di vita che il soggetto si sta disegnando.
Con la sfida di attivare energie, insinua la domanda: «finora, come te ne sei servito? Con quale volonta?»:
* per un progetto impulsivo, quello guidato dalla ricerca, più o meno manifesta, della propria soddisfazione immediata e ad ogni costo. Come nella vita dell’infante, qui è assente o quasi il fattore V (= volontà) che consentirebbe di sottrarsi alla presa delle soddisfazioni immediate e di perseverare nella ricerca di uno scopo all’altezza di tutta la realtà della persona.
* per un progetto idealistico, quello guidato prevalentemente dai sogni e dai desideri, insufficientemente confrontati con le reali possibilità della persona entro l’ambiente. Qui il fattore V tira sulle effettive capacità, ma nel quadro della mentalità adolescenziale che pensa al domani, che rimane nella città dei sogni.
* per un progetto impegnato, dove il fattore V serve per mettere le basi della costruzione di sé, come singolo e come gruppo, a lunga portata e tenendo conto delle possibilità reali.
La domanda è sulle varie forme di progetto impegnato. A favore delle persone, modificando date situazioni in senso favorevole (l’azione del politico, dell’idraulico, dell’artista…), a favore di un rapporto personale nella dedizione a date persone (le forme di assistenza professionale, il matrimonio, il medico…)…
Con la sfida del valore fondante, insinua la domanda: «ultimamente, per chi?».
La dedizione filantropica/sociale, di per sé, non si può ancora chiamare religiosa in senso proprio e specifico. Per esserlo suppone l’esplicita dedizione ad un Tu trascendente, non solo quella che Fromm chiamerebbe la religione dei fratelli ma anche la presenza della dimensione verticale. Il rapporto con il Tu trascendente, storicamente rivelatosi, anima la risposta alle condizioni che la vita di volta in volta presenta
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