Foro interno e foro esterno: per un progetto educativo unitario nella formazione seminaristica
Nella formazione seminaristica è richiesta anche dal Codice di Diritto Canonico la direzione spirituale che si affianca come istanza formativa al Superiore (Rettore coadiuvato eventualmente dal vicerettore).
Fin dall’introduzione di questa figura si è imposta la necessità di distinguere tra foro interno ed esterno a salvaguardia della libertà del formando e in vista di una maggiore incisività del processo formativo della coscienza del futuro presbitero. Secondo la tradizione, il foro interno riguardava l’ambito della coscienza e del discernimento della vocazione ed era di spettanza del padre spirituale (spesso anche confessore), il foro esterno riguardava l’ambito della disciplina ed era di competenza del Superiore del seminario. Tale distinzione richiedeva che ben determinati e delicati equilibri venissero rispettati nel rapporto tra le due figure formative.
Il porsi in modo nuovo del problema oggi
La necessità di un approfondimento dei rapporti e degli equilibri dei due fori diventa oggi urgente di fronte alle necessità che la formazione al ministero dei giovani seminaristi pone. Se nel passato il Superiore poteva limitare prevalentemente, anche se non esclusivamente, la sua opera a vigilare che le norme della vita in seminario e le regole del buon seminarista venissero rispettate (la disciplina), lasciando al padre spirituale tutto l’ambito della formazione umano-spirituale quasi fosse l’unico formatore, oggi si pone con sempre maggior urgenza la necessità di provvedere anche alla formazione umana dei futuri presbiteri, integrandola nella dimensione spirituale e pastorale, in quanto i giovani che si presentano alle nostre istituzioni vocazionali non di rado denotano carenze di vario tipo in questo ambito. Non è compito che il padre spirituale può e deve affrontare da solo, né si può pensare di procedere a compartimenti stagni tra le diverse figure formative.
Abbiamo oggi la percezione molto più chiara della necessità di un approccio olistico alla persona, tanto più necessario quanto più la nostra cultura tende alla frammentazione dei diversi ambiti di esistenza. La formazione deve più che mai tenere uniti i vari aspetti e dimensioni della personalità, che, seppur distinti, non possono mai essere separati. Uno degli aspetti problematici della formazione è dato dal fatto che vengono tenute presenti le diverse aree (umana, spirituale, intellettuale e pastorale), ma spesso non in adeguata interrelazione e integrazione tra loro. Il rischio è che si ripresenti in maniera nuova la separazione tra il ruolo del Superiore (area umana e pastorale) e quello del padre spirituale (area spirituale), rimanendo affidata ai docenti l’area intellettuale, quasi che nella realtà della persona e nell’unità del suo mondo interiore esse non si influenzino a vicenda e non interagiscano profondamente tra di loro. Bisogna tenere presenti e unite tutte e due le aree e, soprattutto, bisogna farle interagire in una sintesi armonica alla luce dell’unità della persona e della dimensione spirituale della vita sacerdotale dedicata al ministero: ciò è compito sia del padre spirituale sia del Superiore. La sintesi è l’impegno più difficile per tutti, seminarista e formatori, da vivere e da assumere sempre con umiltà in quel contesto di fiducia in Dio che caratterizza la vita sacerdotale, ma non ci si può attendere che essa venga operata dal seminarista, mentre le diverse figure formative camminano separate. Si deprecherebbe la frammentazione, mentre la si favorirebbe con il tipo di formazione offerta.
Di queste nuove esigenze si è fatta carico con molta lucidità la Commissione Episcopale per il Clero della CEI con la Nota Linee comuni per la vita dei nostri seminari (25-04-1999). Questa nota investe i Superiori, in modo molto più deciso e più ampio di quanto non sia mai stato fatto nel passato, di un compito preciso anche nell’ambito della formazione unitaria del futuro presbitero. Ritengo la sottolineatura quanto mai opportuna. Mi pare, tuttavia, che proprio da qui nasca l’esigenza di una ripresa del tema della distinzione dei fori interno ed esterno e della loro integrazione educativa onde evitare confusioni o separazioni che possono risultare di danno al processo formativo dei futuri presbiteri e alla Chiesa stessa. Un impegno più deciso nella formazione unitaria rimette in questione il ruolo del Superiore, perché richiede allo stesso di entrare maggiormente nella vita vissuta dal seminarista e nel suo stile motivazionale di vita, impegnandolo così in un rapporto molto più profondo con lui. Il Superiore non può più essere colui che vigila soltanto sull’osservanza delle regole della vita in Seminario e sul rispetto degli orari.
I diversi contenuti sui quali i due fori lavorano
Centrale è e resta la questione dei contenuti di vita sui quali i due fori operano nella formazione e nel discernimento vocazionale. Ciascuno ha un contenuto specifico sul quale lavorare? La risposta non può essere che complessa, scevra da semplificazioni che non renderebbero ragione delle oggettive necessità formative al ministero.
Certi problemi e certi aspetti della vita della persona, che presentano per natura loro un carattere più intimo, non vengono affrontati come tali in foro esterno se non sono di pubblico dominio (come ad esempio: certe debolezze nel vivere le virtù, traumi subiti e loro ripercussioni emotive, trasgressioni più o meno consapevoli durante il percorso formativo…). Il Superiore non deve chiedere al candidato di aprirgli la sua coscienza su tali ambiti. Il foro interno va protetto come luogo di responsabilizzazione in coscienza del soggetto nei confronti della propria vocazione. Infatti, da una parte, solo se il candidato assume fino in fondo la responsabilità della propria formazione, gli aiuti che gli vengono offerti possono avere la speranza di dare i migliori frutti. Dall’altra parte, per incontrarsi a fondo con la propria coscienza (in cui solo la parola di Dio dovrebbe poter risuonare), è necessario che tutto ciò che potrebbe disturbare sia allontanato il più possibile (per esempio: paura del giudizio degli altri, possibili conseguenze sul suo cammino in seminario…). Protezione, tuttavia, non deve significare in alcun modo favorire la chiusura (come scelta o come difesa psicologica) in una omertà che impedisca il confronto proficuo con se stessi: per questo si chiede come necessario il rapporto con un padre spirituale, il quale, per evitare omertà disastrose, può (e a volte deve) chiedere al seminarista di comunicare al Superiore aspetti importanti del suo vissuto.
La persona ha diritto ad essere protetta contro certe forme di indiscrezione che possono facilmente prendere piede se il foro esterno pretendesse di sapere tutto, soprattutto su certi ambiti di vita in cui la persona ha diritto alla discrezione. È per questo che il foro esterno deve guardarsi dal suscitare certe confidenze che potrebbero in qualche modo intaccare non solo la libertà della persona nella sua relazione con il Superiore, ma anche la libertà di quest’ultimo nella relazione con il candidato. In questo senso, il foro interno è stabilito a protezione della persona. Qualora il candidato di sua spontanea volontà volesse affrontare in foro esterno problemi propri del foro interno dovrebbe essere avvertito dal Superiore che non è affatto tenuto a tali confidenze, non certo per fuggire da compiti formativi che gli venissero in tal modo affidati. Accettandole e fornendo l’aiuto formativo suo proprio, non dovrebbe, tuttavia, sostituirsi al padre spirituale, bensì rimandare a lui per l’approfondimento specifico di sua competenza.
Resta comunque il fatto che il candidato al ministero, ponendosi davanti a Dio, deve essere leale nei confronti della propria coscienza e nei confronti della Chiesa. Se di certi aspetti della sua vita non parlerà mai con il Superiore, perché ha diritto alla discrezione, è tuttavia tenuto in coscienza a parlarne con il proprio padre spirituale per verificare se per lui sia prudente e opportuno presentarsi come candidato al ministero ordinato. In nessun ambito della formazione al presbiterato il candidato può presumere di poter camminare da solo: se spetta a lui decidere di domandare di essere ammesso all’ordine, e questo sulla base di una coscienza che si è formata nella propria convinzione attraverso un rapporto il più possibile aperto e profondo con il padre spirituale, l’ultimo giudizio sull’accettazione della sua domanda spetta al Superiore, e ultimamente al Vescovo. Il Superiore, evidentemente, non giudicherà sulla base delle convinzioni di coscienza del candidato (non basta la richiesta del candidato per essere accettati), ma sugli elementi di sua conoscenza che egli ha acquisito (vita in seminario, incontri con il seminarista, parroci, famiglia, professori…).
Stante questo, va ulteriormente chiarito che cosa distingue il ruolo del Superiore da quello del padre spirituale e come i due ruoli convergono nella formazione unitaria e integrale della persona. In realtà, gli stessi contenuti possono entrare in una conversazione sia con il padre spirituale sia con il Superiore, ma non sotto la stessa prospettiva e non con il dovere della medesima profondità di apertura intima della coscienza.
Un esempio: i due fori e l’esperienza pastorale
Nel curriculum formativo del seminarista è prevista la pratica pastorale, la quale ha bisogno di verifica sia con il Superiore sia con il padre spirituale, se si vuole che il seminarista ne tragga quella formazione al ministero che da essa ci si aspetta. Con il Superiore il candidato verificherà la sua pratica pastorale sotto l’aspetto delle sfide pastorali presenti nella situazione che sta vivendo, dell’aggiustamento dei propri comportamenti e interventi pastorali in risposta alle richieste di detta situazione, dell’attenzione che deve prestare alle responsabilità che le esigenze pastorali comportano in ordine al ministero proprio del sacerdote, dello sviluppo delle doti e delle virtù necessarie ad un pastore in quelle particolari situazioni... Il Superiore potrà certo, a partire dai comportamenti notati da lui o da altri (per esempio: fuga dai giovani per stare solo con i bambini, fuga dall’oratorio per rifugiarsi in sacrestia, atteggiamenti puntati sull’apparire, sul dominare, o connotati di aggressività, passività…) far prendere coscienza al seminarista, con la dovuta sensibilità pedagogica, che ci sono alcune motivazioni che reggono il suo agire e delle quali non sembra esserne conscio. Potrà anche confrontare il seminarista sulla non coerenza dei suoi comportamenti (per esempio: incoerenza tra il suo modo di vivere in seminario e la vita in famiglia o in parrocchia) e proporgli interpretazioni che ne spieghino l’origine. Entra così nel campo delle motivazioni che sembrano guidare l’agire del seminarista, non tanto perché le chiede direttamente al seminarista, quanto perché esse constano al Superiore dall’insieme dei comportamenti del seminarista. Non chiederà al seminarista di manifestargli la sua coscienza in merito, ma gli chiederà, se necessario, di cambiare atteggiamenti confrontandolo sulle motivazioni che sembrano stare alla base di essi e che risultano essere in contrasto con quanto si richiede a colui che vuole abbracciare il ministero ordinato. In tal modo egli agisce profondamente sulla vita del seminarista, affinché egli abbia a crescere nella sua maturità umana e pastorale, sempre in riferimento a quella vocazione che egli dice di voler abbracciare. Introduce, quindi, anche una sollecitazione che ha a che fare con la crescita spirituale del candidato, poiché non potrà mai perdere di vista l’unitarietà del suo mondo interiore. Per una verifica più profonda delle sue motivazioni al ministero gli chiederà di aprire la propria coscienza al padre spirituale, sottolineandogli, se necessario, che ciò gli è richiesto di fare per grave responsabilità morale e spirituale nei confronti della propria vocazione e della Chiesa.
Nel rapporto con il padre spirituale, invece, l’accento sarà messo soprattutto sulla maniera in cui il seminarista vive interiormente la sua vita apostolica e pastorale, sull’autenticità delle motivazioni che emergono nella sua pratica pastorale, sul modo in cui sta costruendo in sé, a poco a poco, la vita sacerdotale sotto l’influenza dello Spirito, sul modo interiore in cui vive la dedizione e la carità pastorale richiesta, sulle proprie eventuali difficoltà interiori ad assumere il ministero pastorale così come richiesto dalla Chiesa, sulla sua vita affettiva anche in ordine alle disposizioni necessarie per l’impegno del celibato… Anche il padre spirituale non potrà mai perdere di vista l’unitarietà della vita interiore ed esteriore del candidato, per questo alcune volte dovrà chiedere al seminarista di comunicare al Superiore alcuni dati importanti della propria vita.
Con una certa semplificazione si potrebbe dire che il Superiore verifica con il seminarista i comportamenti (e le motivazioni che essi sembrano manifestare) e partendo dalle esigenze della situazione pastorale, interpella la sua coscienza stimolandola perché si formi come coscienza di un pastore dedito al regno di Dio nell’impegno celibatario. Il padre spirituale estende e per certi aspetti approfondisce la sua verifica: partendo dalle forze (motivazioni) interne al soggetto che dettano tali comportamenti, verifica e stimola l’autenticità delle intenzioni e delle motivazioni che in detti comportamenti vengono/devono essere vissute e maturate per una progressiva e sempre più piena conformità alla carità pastorale di Cristo. Il Superiore parte da ciò che il comportamento sembra dire del soggetto, mentre il padre spirituale parte dall’interiorità che produce quel comportamento: entrambi devono avere presente l’unità della persona. Anche il Superiore, procedendo come sopra, interroga il seminarista e lo stimola ad avere un rapporto onesto, leale e aperto con la propria coscienza, solo che non ne chiede l’apertura piena a lui, esortando a confrontarsi sul suo contenuto con il padre spirituale.
Senza l’interrogazione e lo stimolo del Superiore sarebbe, almeno in parte, pregiudicato lo stesso lavoro formativo del padre spirituale e il diritto alla segretezza del foro interno si aprirebbe al pericolo dell’omertà. Per questo è opportuno che il Superiore faccia giungere al padre spirituale le informazioni in suo possesso, anche se la comunicazione non potrà essere biunivoca. Come si vede le due istanze non procedono verso una formazione a linee parallele o separate o, peggio ancora, divergenti, ma cooperano, a diversi livelli, all’unitaria formazione del futuro presbitero. Tutte e due interpellano la coscienza del seminarista, sia pure con richieste e sollecitazioni diverse e partendo da punti diversi (uno dai comportamenti osservati, l’altro dall’interiorità che li genera), con lo scopo di formare la persona nella sua integralità.
Unità del progetto formativo
Per una buona riuscita del processo formativo è necessaria e imprescindibile l’unità dell’indirizzo educativo (da cui dipende anche la futura unità del presbiterio) e, quindi, è necessario che le due figure conoscano bene quali sono gli ambiti di vita che vengono affrontati dall’una e dall’altra e come vengono affrontati, perché solo così si possono completare a vicenda senza confusioni e possono favorire una completezza della formazione al ministero come si aspetta la Chiesa. Tutte e due le figure sono istanze formative imprescindibili e tutte e due sono istanze ecclesiali necessarie per un discernimento vocazionale in vista del ministero: questo deve essere tenuto ben presente.
Il Superiore opera nella formazione e nel discernimento vocazionale a partire dall’adeguatezza dei comportamenti e delle motivazioni che essi manifestano; il padre spirituale a partire dalla conoscenza acquisita dall’apertura della coscienza del soggetto, ma senza trascurare i dati che eventualmente il Superiore gli ha fatto conoscere.
La persona, quando chiede di diventare prete, non mette al centro i suoi desideri personali come primari. Deve confrontarsi con la volontà della Chiesa e costruire la propria vita sacerdotale secondo quanto la Chiesa vuole e si attende dal presbitero. Il padre spirituale presenta al seminarista come la Chiesa intende che egli abbia a costruirsi un’esistenza sacerdotale in comunione profonda con i sentimenti di Cristo, con i suoi atteggiamenti e le sue motivazioni interiori, e lo aiuta ad aggiustare su di ciò il suo cammino spirituale e i suoi comportamenti sia nell’ambito dello studio sia in quello dell’attività pastorale sia nella sua crescita umana. Il tutto in vista dell’assunzione degli impegni del ministero ordinato e del celibato. Il Superiore gli presenta quello che la Chiesa ha come missione nel mondo: lo aiuta a capire quali siano le virtù e le doti richieste da tale missione, lo accompagna e lo confronta nell’assunzione progressiva dei comportamenti necessari e delle motivazioni corrispondenti. Il campo da cui parte il Superiore è, quindi, quello dell’agire in vista del futuro presbiterato per stimolare una maturazione umana, pastorale e intellettuale e in tal modo egli collabora anche alla formazione della spiritualità pastorale del futuro presbitero. Le aree della formazione sono distinte, ma non potranno mai essere pensate e affrontate come separate. Il mondo interiore del soggetto non può che essere unitario e la formazione deve tendere a questa unitarietà attraverso la pluralità delle diverse figure che collaborano alla formazione.
L’esse e l’agire non possono mai venire separati nella persona, pena una formazione a doppio binario senza che ci sia mai un incontro: il risultato sarebbe la disintegrazione dell’unità dell’esistenza sacerdotale. Agere sequitur esse dicevano già i medioevali. Per questo non può mancare nessuna delle due istanze formative, ma per la libertà di coscienza del formando non possono essere rivestite entrambe dalla stessa persona. Nel chiamare una persona ad assumere un ministero, la Chiesa pur non basandosi solo sul desiderio del soggetto, non può, tuttavia, non tener conto di esso. Per questo si è dotata di due istanze formative tra loro complementari: il desiderio verificato e purificato sotto l’aspetto delle doti e delle virtù pastorali possedute e manifestate nella vita e nell’azione pastorale; il desiderio verificato e purificato sotto l’aspetto delle intenzioni, delle motivazioni e della carità pastorale richiesta in modo da conformare interiormente il desiderio personale al cuore di Cristo. Tutte e due le istanze operano un discernimento vocazionale, in obbedienza allo Spirito, ma ciascuna solo per la parte di sua competenza.
Ambito e limiti del foro interno
Il foro interno è il foro della coscienza intima del candidato, il quale apre la sua interiorità al padre spirituale, non in vista di far decidere a lui della propria vocazione (non è lui che pronuncia il giudizio ultimo sull’orientamento vocazionale), ma in vista del comprendere meglio ciò a cui Dio lo chiama. Nessuno può decidere al posto della coscienza del soggetto, neppure il padre spirituale. Ciò non vuol dire che il padre spirituale non abbia un giudizio autorevole suo proprio da pronunciare, ma esso riguarda sempre la possibilità dell’esistenza o meno della vocazione al presbiterato. È evidente che un tale giudizio si basa sulla dischiusura della propria coscienza fatta dal candidato al padre spirituale, condizione sine qua non della direzione spirituale. Alla fine, il padre spirituale rinvia sempre il soggetto alla sua coscienza. Spetta a quest’ultimo, di fronte alla propria coscienza e a Dio prendere la decisione definitiva.
Il foro interno è, quindi, il foro della coscienza del candidato. Poiché essa ha bisogno di essere formata e illuminata rispetto alla vocazione personale, il padre spirituale deve avere accesso ad essa, ma al solo fine di formarla e illuminarla, non alla scopo di decidere dell’ammissione o meno agli ordini sacri, sostituendosi alla coscienza soggettiva. Poiché la Chiesa ha bisogno di garanzie circa la corretta formazione della coscienza dei candidati agli ordini sacri, il padre spirituale deve essere approvato dal Vescovo. Ma essendo il foro interno quello della coscienza del candidato, nulla vieta, se egli lo vuole, che abbia aprirla anche ad altri formatori in spirito di piena collaborazione alla propria integrale e unitaria formazione.
Il foro interno è gravato dall’obbligo assoluto del segreto: questo segreto, da una parte, garantisce al seminarista la libertà di affrontare in direzione spirituale tutte le questioni che ritiene importanti per la sua vita presente e futura e, dall’altra, garantisce al padre spirituale la possibilità di essere libero nel chiedere al seminarista di manifestargli tutto ciò che ritiene rilevante per la costruzione della sua personalità sacerdotale a partire da ciò che conosce di lui (conoscenza acquisita eventualmente anche dalle informazioni ottenute dal Superiore di foro esterno o dagli altri educatori presenti in seminario alle cui riunioni egli partecipa).
Là dove si richiede il massimo di apertura della coscienza è esigito il massimo di protezione della stessa da interferenze e pressioni che potrebbero ostacolare il libero comunicarsi, verificarsi e maturare della stessa. A ciò è necessario che il padre spirituale sia tenuto al segreto. Egli non deve mai tradire, nemmeno con semplici cenni del capo o del viso, la riservatezza di quanto conosce dal colloquio spirituale, non deve entrare affatto nelle decisioni circa l’ammissione o meno al ministero (e, quindi, anche circa la continuazione o meno del cammino formativo). Anche per questo assume una presenza piuttosto riservata anche all’interno della comunità di formazione e non tiene contatti né con la famiglia né con la parrocchia del seminarista.
Il foro interno è un luogo nel quale il seminarista può prendere distanza dalle pressioni e dai conflitti interpersonali che ogni giorno pesano sulla sua persona, anche ad opera del Superiore. In questo senso il direttore spirituale gode di una terzietà rispetto al Superiore che permette al seminarista una libertà di confronto e di maturazione al di fuori di forme di dipendenza e di compiacenza verso di lui. Ciò sarebbe più difficile, se dovesse aprire la propria coscienza al Superiore, sapendo che spetta a lui poi decidere della sua ammissione agli ordini. Processi più o meno consci di manipolazione del suo giudizio non sarebbero affatto da escludere: così avviene, per esempio, quando il seminarista fa ricorso a una apertura parziale o selettiva, con conseguenze gravi nella sua integrale formazione.
I limiti, se così si vogliono chiamare, del foro interno sono dati dal fatto che anche quando ritenesse assolutamente inopportuno che il soggetto prenda gli ordini sacri, non può far nulla per impedirlo, se non cercando di illuminare la coscienza del candidato, di dissuaderlo con tutti i mezzi a sua disposizione, rammentandogli la grave responsabilità che si assume, fino a giungere a negargli l’assoluzione, se è anche suo confessore. Ha tuttavia la possibilità, e a volte il dovere, di rifiutarsi di continuare una tale direzione spirituale che non avrebbe più alcun senso. Questo limite è un rischio che la Chiesa opportunamente ritiene di accettare, in quanto in caso opposto si perderebbe la possibilità di formazione libera dell’interiorità del candidato.
Ambito e limiti del foro esterno
Il foro esterno è l’istanza formativa che ha ricevuto dal Vescovo la responsabilità ultima della presentazione del candidato per l’ammissione agli ordini sacri. Esso prende posizione sulla vocazione del candidato: «esprime un giudizio sintetico da esprimersi al Vescovo circa l’idoneità per l’ammissione al seminario, alle varie fasi del cammino educativo e agli ordini sacri», in quanto la vocazione del soggetto non si realizza ultimamente che con la chiamata della Chiesa. Spetta alla Chiesa decidere chi ammettere e chi non ammettere agli ordini sacri. Non c’è un diritto del soggetto all’ordinazione sulla base soltanto della sua intenzione, desiderio o richiesta.
Considerare, tuttavia, il foro esterno solo nel momento della decisione circa l’ammissione o meno al seminario o agli ordini, significa perderne la fondamentale istanza formativa. Al Superiore è affidato il compito di seguire «la formazione degli alunni in tutti i suoi aspetti».
Il foro esterno darà il suo giudizio in base alla conoscenza del seminarista acquisita dalla vita quotidiana condivisa e della collaborazione cordiale del seminarista alla propria formazione, che implica necessariamente le relazioni anche profonde costruite dalla comunanza di vita, dalle informazioni dei presbiteri che ne hanno curato la formazione sia intellettuale che pastorale, dalla famiglia, dal parroco… e dal grado di apertura del seminarista stesso. Si tratta di un giudizio sulle capacità, sulle doti e sulle virtù dimostrate sia nella vita comunitaria, sia nella vita pastorale, sia nella preparazione intellettuale.
Il giudizio del Superiore evidentemente non è gravato della stessa assolutezza del segreto, come invece è per il padre spirituale: le conoscenze del Superiore possono essere, entro i limiti della discrezione e della protezione dell’intimità e della buona fama, condivise con altri Superiori (Vescovo, Consiglio di ammissione agli ordini, ecc.) onde giungere ad un discernimento definitivo circa l’ammissione agli ordini sacri che alla fine spetta solo al Vescovo.
Per prendere la decisione che gli compete, il Superiore non deve affatto sapere tutto sulla persona. Deve avere una conoscenza sufficiente che gli permetta di emettere un giudizio, ma dovrà rinunciare ad un sapere totale e in particolare a un sapere generato da confidenze tali che possono essere fatte solo all’interno di una direzione spirituale. Questa rinuncia del foro esterno non può essere fatta che sulla base della fiducia che esso nutre nei confronti del foro interno.
Il foro esterno deve restare libero nel suo giudizio e non delegare nulla di ciò che è di sua competenza al foro interno. Anche il foro esterno opera un suo discernimento vocazionale e non propone per l’ordinazione nessun candidato senza aver fatto una rilettura della sua vita (secondo gli elementi a sua disposizione) cercando in essa i segni della chiamata del Signore, tenendo sempre presenti come criteri le esigenze del ministero nel quale il candidato, da ordinato, si dovrà impegnare.
Anche questo giudizio del Superiore soffre di limiti, non avendo accesso all’intimità vissuta del candidato, ma questi limiti, d’altra parte, permettono allo stesso Superiore di non essere influenzato nel suo giudizio da elementi altri rispetto all’attitudine oggettiva (in base cioè a quanto appare dal comportamento e dalla sua conformità o meno alle richieste vocazionali) del candidato al ministero ordinato.
La fiducia sulle rette intenzioni che il foro esterno pone nel candidato che si offre per l’ordinazione trova una garanzia nella direzione spirituale cui il candidato ha fatto ricorso. Per questo esso esige, attraverso apposita attestazione del padre spirituale, di avere la certezza che il candidato ha avuto una sufficiente direzione spirituale, senza poter sapere nulla di ciò che è intercorso nella stessa, né del giudizio del padre spirituale circa la vocazione del candidato. Il foro esterno potrebbe forse chiedere al candidato il giudizio che il padre spirituale ha dato circa la sua vocazione, ma non potrebbe mai accertare la veridicità della sua attestazione.
Al candidato corre il dovere di farsi conoscere con fiducia dal Superiore di foro esterno mantenendo con lui rapporti cordiali (così come dovrà fare il Superiore nei suoi confronti); lo farà con maggiore disponibilità ben sapendo che esso non si inoltrerà in questioni intime sue che egli non vuole consegnargli.
Il foro esterno deve accettare che c’è una conoscenza del soggetto che chiede di essere ammesso agli ordini cui esso non ha affatto accesso: si tratta del foro interno. Non per questo deve astenersi dal dare il suo giudizio in base a quanto gli consta.
Il rischio da correre nella formazione
La Chiesa che chiama uno a diventare prete assume certamente un rischio nel senso che non ci sarà mai la certezza metafisica che la scelta è giusta. La distinzione dei due fori fa prendere coscienza a ciascuno dei due del rischio che si corre, ma questo rischio è quello della fiducia che deve rispettare la libertà, responsabilizzandola pienamente, ma in due ambiti diversi (i due fori), questo perché la libertà del soggetto possa assumersi fino in fondo la propria responsabilità nei confronti della propria vita e del ministero. Proprio per questo bene (libertà e responsabilità soggettiva), vale la pena di correre il rischio. Il ministero chiede di essere accolto e vissuto in una vera libertà spirituale. Questa è la sfida più profonda che la distinzione dei due fori vuole raggiungere: quella della libertà spirituale del candidato, senza la quale non abbiamo né una vera formazione, né un ministero in cui la vita stessa del soggetto sia impegnata nel modo più personale e profondo e non al modo «professionista» (solo del fare e non dell’essere).
Se è così, la distinzione deve essere salvata nella reciproca collaborazione dei fori, sia per il bene della Chiesa sia per il bene del soggetto. La mutua fiducia dei due fori suppone un profondo disinteresse personale delle due parti, entrambe dedite alla ricerca della volontà di Dio sul candidato affidato loro per la sua formazione integrale e unitaria.
La formazione unitaria affidata al Superiore e la distinzione dei fori
Nei documenti citati all’inizio di questo articolo, Pastores dabo vobis e Linee comuni per la formazione dei futuri presbiteri nei nostri Seminari, si richiede in modo esplicito un maggiore impegno nella formazione unitaria. È da pensare che questa richiesta sia rivolta sia al Superiore che al padre spirituale, sia pure tenendo conto degli approcci e delle modalità diverse delle due figure.
L’accompagnamento nella formazione richiesto al Superiore non comporta l’abolizione o la diluizione della distinzione dei fori. Al Superiore non è richiesto di entrare direttamente nel campo della coscienza, ma di attenersi a quanto il candidato, collaborando responsabilmente alla propria formazione, manifesta di sé nei suoi comportamenti sia all’interno della vita comunitaria sia nell’attività pastorale sia nello studio della teologia e in quanto viene messo a sua disposizione dalle informazioni raccolte dal parroco, dalla famiglia, dagli altri educatori del seminario. Non potrà mai chiedergli di manifestargli la fonte profonda e intima del proprio agire. Un genitore deve curare la formazione unitaria del proprio figlio, lo fa senza chiedergli di «denudare» la propria coscienza di fronte a lui, ma spesso gli chiede conto di molti comportamenti, gliene suggerisce di altri, anche di natura spirituale, e gli offre utili interpretazioni del perché del suo agire.
Tutti e due i fori hanno come oggetto la vocazione, la sua formazione e il suo discernimento. La distinzione tra di essi non deve implicare affatto né una divergenza nel progetto educativo, né una delega formativa di una figura nei confronti dell’altra. Al contrario, è richiesto un unico progetto educativo verso cui le due figure convergono con competenze diverse. Esse sono e devono restare complementari, avendo, sia pure in forme e con metodi diversi, sempre presente l’unità della persona del formando. Se il Superiore non deve cadere in un’attenzione all’umano staccato dallo spirituale, il padre spirituale non deve cadere in uno spiritualismo disincarnato.
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