Disinnamoramento nella vita di coppia


Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini
Tredimensioni, 2(2005)2, 181-193

 

Affrontiamo il tema del disinnamoramento e della delusione amorosa sulla scorta di alcuni casi che abbiamo affrontato nel nostro lavoro di consulenza alle coppie e sulla scorta di un testo che ci ha molto intrigato, di cui condividiamo l'impostazione relazionale sistemica, ma di cui non condividiamo appieno gli obiettivi. Sul nostro modo di intendere l'approccio relazionale sistemico, coniugandolo con la visione cristiana, abbiamo già detto in altra sede. Qui ci proponiamo di portare alcune considerazioni non sistematiche a supporto di quanti, consacrati o semplici operatori pastorali, sono animati dal buon proposito di aiutare un coniuge in crisi.


Miti e leggende a misura di quotidiano

 Il quotidiano, la chiacchiera, ma anche la più seria riflessione sulla parabola dell'amore, conoscono bene il tema della delusione amorosa. E se il quotidiano si trova raccontato da penna esperta, si sente capito.

Potrebbe essere questo uno dei motivi di successo dell'ormai famoso romanzo della Tamaro: Va' dove ti porta il cuore (1994). E dove porta il cuore della famosa nonna Olga del romanzo, che consegna alla nipote la sua vita sotto forma di confessione e testamento? La porta a tradire il marito, prevedibile e mortalmente metodico, che non risveglia più in lei il fascino dell'innamoramento vero. Almeno così le pare quando incontra «per la prima volta» l'amore a cui concedere tutta se stessa. Questa nuova eroina, romantica e assieme post-moderna, si muove all'interno di un ambiente che sembra quello tradizionalmente cristiano del novecento, ma che di cristiano ha mantenuto poco… non perché mette in scena tradimento e peccato, ma perché ha perso la novità della Parola e si rifà ad una teologia pagana dell'Amore e del matrimonio.

Non c’è «buona novella» nella nostra cultura pagana del matrimonio: il flusso spontaneo dell’attrazione amorosa non sembra essere per niente nelle mani della persona che ne «subisce» passivamente il corso. Il passato condiziona il futuro in maniera disperante; infatti sarà solo per caso se i modelli riguardo a qual’è il giusto modo di pensare e di fare le cose di un coniuge si trovano compatibili con quelli dell'altro. Il mito delle due metà separate nell'iperuranio (cioè «una volta», cioè dall'eternità...) porta con sé un'alta probabilità di dolore perché è difficile che le due metà si rincontrino; «il vero amore si incontra una volta su un milione», scriveva la nonna, e ne è una buona traduzione. Il disinnamoramento interrompe in modo fatale il flusso amoroso e alla coppia non resta che prendere atto della gabbia di malessere che l'accompagna, al punto di pensare che fuggire da questa gabbia con bugie e tradimenti sia la conseguenza quasi inevitabile (a meno di diventare santi disincarnati!).

Segnaliamo qui un aspetto che abbiamo riscontrato molto spesso: l'interpretazione culturale della parabola che abbiamo appena descritto capovolge i dati di fatto. Infatti, bugie e forme più o meno esplicite di tradimento anticipano spesso l'autonarrazione del proprio disinnamoramento. E, in questi casi, la discronia non è un piccolo particolare, ma un dato in grado di far saltare la narrazione esplicativa! Infatti, chi non ha cura del proprio amore, finisce con il provocare il proprio disinnamoramento, esattamente come possiamo prevedere che chi non ha cura della propria vita sacramentale e di preghiera finisca con il perdere la fede. L'ipotesi esplicativa più comune tende, invece, a leggere ex post la storia, a partire dal disinnamoramento!


Vivere la fase anziché cercare la colpa

Mettiamoci davanti al disinnamoramento come dato di fatto portato da un coniuge. Da una parte non possiamo che prenderne atto, dall'altra possiamo aprire questo vissuto alla sua maggior complessità e, diciamo pure, anche ad un maggiore «rispetto» dei dati.

Sapere che cosa, io coniuge, ho fatto per arrivare fino a lì potrebbe essere una strada, che però, in genere, non porta molto lontano perché rischia di inserire nella relazione d'aiuto un gioco di basso profilo, che si mantiene nell'ambito della ricerca del colpevole. Questo gioco prevede repentini scambi dei ruoli: «il colpevole» che attacca ad accusare e «l'innocente» che si scopre con un mare di colpe. Alla fine, generalmente, la relazione resta al punto zero iniziale: la delusione per colpa di qualcuno, e non importa se c'è stato uno scambio di persone sul banco degli imputati!

È molto più utile connotare la delusione diversamente: come una fase del processo che una coppia affronta nello sviluppo della sua relazione d'amore, come un’elaborazione che fa parte dei compiti di sviluppo.

Ma che significa compiti di sviluppo? Nella nostra cultura la parola compito è abusata ed evoca nell'uso un sapore di dovere ingrato (del tipo «fai i compiti» ingiunto al bambino), mentre in questo contesto -e accompagnata dalla connotazione «di sviluppo»- la parola ha ben altro sapore: indica un munus, un dono-compito che introduce al futuro, un passo nuovo da fare, un accrescimento, un dirigersi verso qualche cosa di non già dato, indica una, cento e mille modalità di dire «non è tutto qui».

Tra i compiti di sviluppo di una relazione di coppia, si può considerare anche il passaggio -in un tempo che è diverso per ciascuna coppia- dall'innamoramento («processo di presunzione di somiglianza») all'esperienza dell'amore coniugale che si esprime nella cooperazione e nella compagnia, cioè nel decidersi sempre più per il noi.

Oppure, per dirla con Malagoli Togliatti, compito di sviluppo può essere il passaggio dal primo al secondo contratto. Accanto ad una serie di regole e propositi consapevoli ed espressi, il «primo contratto» posto in essere nel matrimonio contiene sempre una serie di non detti (dei quali si diventa forse consapevoli man mano che si cade nel «circuito della delusione») che rispondono a bisogni collusivi di cui i due caricano il matrimonio. Tale lato sotterraneo del contratto resta in parte inconsapevole: man mano che la coppia si rafforza, anche la parte collusiva e implicita della relazione di coppia può «snodarsi», uscire alla luce e trovare due persone che non se ne lasciano sommergere, ma anzi la usano per ristrutturare e rinnovare il loro legame.

I compiti di sviluppo (sia nei termini di Scabini che di Malagoli Togliatti) sono affrontabili nel quadro di una corretta teologia, quella della promessa di un Dio che ritira la propria schiacciante onnipotenza per far posto ai passi incerti della libertà dei due innamorati: i due, a partire dalle loro storie, dalla loro ricerca consapevole o persino inconsapevole, si assumono la responsabilità di essersi cercati e voluti. Il matrimonio diventa una loro «conquista», in senso legittimo, e aperta al futuro. Nessuna predestinazione, nessuna metà che incontra necessariamente l'altra sua metà, come nella lettura cogente dei giochi fatti da altri nell'iperuranio. Il loro libero trovarsi, il loro legame è consacrato come legame voluto da Dio. Sta a loro conquistarsi la loro porzione di Terra Promessa, ma con la sicurezza che Dio combatterà con loro contro i giganti, contro le forze disgregatrici del loro matrimonio.


Superare i dati di fatto con cui la coppia si ingabbia

Anche pensandolo con un happy end, entrare nel circuito della delusione (per usare i termini di Malagoli Togliatti) non è, però, una tranquilla passeggiata. È un momento cruciale che sollecita la coppia a passare dal primo contratto che aveva una parte sommersa o inconsapevole, ad un secondo contratto più esplicito e maturo. Già a questo punto, intravediamo che questo percorso -se dissociamo il termine disinnamoramento da quello di delusione- può assumere una connotazione addirittura positiva (delusione non é sinonimo di disinnamoramento). E intravediamo pure come una «nuova narrazione dei fatti» sia in fondo una grazia che non ingabbia nei cosiddetti «fatti che parlano da soli».

Una giovane sposa si diceva molto delusa dal comportamento del marito che a sua volta mostrava chiari segni di disinnamoramento nel suo rapportarsi con le altre donne. Il marito la rimproverava che, quando lui tornava alla sera dal lavoro, spesso lei non era ancora tornata a casa e toccava quindi sempre a lui preparare la cena... Lei leggeva questi rimproveri di lui come arroganza del maschio che non capisce le esigenze di affermazione professionale di lei, nel suo difficile lavoro di avvocato in carriera che non le permette di smettere all'ora fissata se il capo alla fine di ogni giornata ama fare il punto della situazione dello studio con tutta l'equipe.

Un giorno arrivano alla seduta con molto ritardo perché nevicava e c’era ingorgo di traffico. Riferendosi alla neve che continuava a cadere, il marito incominciò a narrare il suo stato d'animo durante il lavoro: faceva l'ingegnere e durante il giorno gli accadevano molte cose notevoli, sotto un profilo non strettamente lavorativo. Continuamente si diceva: «Adesso, quando ritorno a casa, questo lo racconto a mia moglie... e anche questo... e anche questo!». Poi tornava a casa e trovava la casa vuota (come quando da ragazzo tornava dalla scuola del pomeriggio e trovava solo il gatto ad aspettarlo). Aggiunse: «In queste giornate di neve penso sempre: che bello sarebbe se una grande nevicata coprisse la casa dove abito e né mia moglie né io potessimo uscire di casa per una settimana! Tanta è la voglia che ho di parlare con lei, di sentire quello che lei pensa e prova dopo quest'anno di matrimonio».

Non feci fatica a far notare alla moglie che quello che il marito ci presentava in quel momento non era una rivendicazione, ma un altro racconto! La donna capì e guardò con tenerezza il marito, che subito le rispose mettendole una mano sulla spalla. La delusione non era più sinonimo di disinnamoramento! Il problema di chi preparava la cena restava, ma non aveva più quella virulenza del conflitto assunta precedentemente.

In questo come in altri casi di delusione e di disinnamoramento è molto importante capire che la prima diagnosi fatta dal cliente stesso è una gabbia. Non credergli implica un atto di fede nel sacramento. Certo, i fatti sono quelli che sono e non possono essere cambiati, esiste però anche la grazia di poterli leggere con occhi nuovi!


Vedere per loro l’altra trama

Chiede consulenza una coppia giovane. Lui è un perito di 34 anni e fa il caporeparto in una grande ditta della zona, lei un'insegnante elementare di 33. Sposati da 5 anni, hanno due bimbe. L'ultima di cinque mesi viene regolarmente in seduta perché «non sappiamo dove lasciarla».

La crisi è veicolata da lui che afferma di non ritrovarsi più dentro al suo matrimonio, di non essere più innamorato della moglie. Esplicitamente e crudamente davanti a lei aggiunge: «Non mi piace più fisicamente, io mi sento bloccato, non libero». In altra occasione aggiunge anche due «aggravanti»: da una parte estende la sua distanza alla famiglia di lei («Non accetto lei e la sua famiglia») e dall'altra, davanti ai rilievi negativi sul suo carattere fatti dalla moglie, tenta la mossa del non cambiamento («Io sono fatto così...»). Lei dice, tra le lacrime, che lui non parla, con lei è chiuso e tenero solo con le bambine.

Anche la mia richiesta alla coppia di farmi un elenco delle qualità del coniuge non porta molto più in là di quanto il non verbale faccia già presagire. Lui mette in primo piano le figlie (quella che portano è una bellissima bambina bionda, molto quieta, che in seduta non ha mai disturbato: mi chiedo se non possa essere anche questo un segno che il disagio non è così profondo come i genitori dicono), un antico ideale di famiglia aperta che sembrava condiviso, il fatto che la moglie lo lascia libero. Lei, nonostante tutto, gli riconosce che è una persona schietta, che sa tenere la calma, che è un bell'uomo.

Comincia anche ad essere chiaro come i due si rendano la vita impossibile. Lei sente di essere un peso per lui, si fa sensi di colpa per qualsiasi cosa, e quando con il suo parlargli e cercarlo riesce a farlo arrabbiare ha un ulteriore motivo per diminuire la propria autostima. Quanto a lui, riesce a fatica ad accettare che lei si coccoli accanto a lui sul divano vedendo la tele..., può accettarla solo se lei promette di non prendergli la mano e di stare zitta. Lui, infatti, sta bene quando «costruisce»: la casa, il giardino, l'orto sono il suo spazio di realizzazione. Da una parte è fiero di questo suo costruire e fare in casa, dall'altra si sente in gabbia.

Nemmeno il ricorso al primo innamoramento sembra un richiamo fattibile: sono due ragazzi di oratorio che hanno sempre fatto tante cose assieme; lui aveva anche cercato di rompere il fidanzamento, ma lei aveva pianto disperata e lui dice che si era lasciato commuovere. E in questo frangente approfitta ancora per dire che lei non è bella... Lo interrompo bruscamente.

In seconda seduta noto l'effetto benefico sulla coppia del sentirsi presi in mano: entrambi hanno fatto gli homeworks assegnati, dai quali mi è chiaro come lui sia sensibile ai gesti concreti fatti nei suoi riguardi e lei sia sensibile agli apprezzamenti e agli incoraggiamenti. Mi preparo ad assegnare homeworks che vadano positivamente in questo senso, ma mi preparo anche a dare indicazioni nel senso che la coppia ritrovi una distanza buona: non quella estorta da lui e vissuta da lei in termini di svalutazione e accompagnata da espressioni lagnose.

Punto, infatti, sulla necessità di darsi reciprocamente il permesso di soffrire (alludendo solo lontanamente al disinnamoramento di lui e al pianto di lei). Concedersi reciprocamente questo permesso è un primo passo verso una relazione meno intricata. Per lei significa non dare per scontato il fallimento matrimoniale per il fatto di non sentire il marito all'unisono e, anzi, accogliere che lui abbia uno stile diverso (ma che questo non sia contro di lei). Per lui, significa sottrarlo al peso dell'esibizione del dolore della moglie, che gli testimonia la sua incapacità di fare qualcosa per questa donna. Ogni uomo si sentirebbe schiacciato dal compito titanico di non far sì che la moglie non soffra!

In terza seduta chiedo di parlare invidualmente con entrambi. Con il marito riprendo una richiesta che già gli avevo fatto: io non so come vada a finire il loro rapporto, ma penso di poter aiutare solo se lui, almeno per il tempo in cui vengono da me, investe nel rapporto come può, ma investe. E mi trovo davanti una persona seria che accetta il patto. Ha la sensazione di non sentirsi amato, che l'amore della moglie nei suoi confronti non sia corretto ma di marca costrittiva (come quello della propria madre) e soprattutto si sente ferito da alcune espressioni che la moglie gli ha lanciato nei suoi pianti: «Basta che tu sia qui. Non mi interessa che tu vada con altre donne, basta che tu non vada via». Da queste frasi si sente umiliato: gli sembra che anche l'aspetto interiore della sua donna sia diventato brutto.

Con la moglie riprendo la storia di come lei abbia usato il futuro marito per svincolarsi dalla propria famiglia d'origine e quando costui l'ha presa sul serio e ha cominciato a fare la battaglia per lei, lei si è dimostrata poco grata e legatissima ai genitori proteggendoli anche contro i suoi stessi desideri (ad esempio rimandano la data del matrimonio solo perché loro così imponevano). Incomincia a farsi strada in lei l'idea che debba condurre in proprio la battaglia con la sua famiglia d'origine (dove riconosce che il pianto è un'arma vincente per colui che vuole imporsi): non è il marito, in sé, che non capisce i suoi genitori, ma l'assurda posizione in cui lei lo ha collocato che fa sì che lei lo mandi a combattere e poi gli rimproveri di aver combattuto.

In quinta seduta il tema del disinnamoramento non viene toccato da nessuno di loro due. Lei riferisce che il marito l'ha ringraziata e apprezzata per due volte. Lui riferisce che lei è più serena con le bambine (la bellezza della moglie ritorna a fare capolino nell’immaginario di lui). In seduta incominciamo invece a rileggere come si siano delusi reciprocamente: una narrazione della delusione che con il nostro aiuto è nuova, non è catastrofica, ma anzi è all'insegna dello sviluppo del loro rapporto. Questa rilettura insinua che la delusione di entrambi non sia più sinonimo di disinnamoramento!

In sesta seduta mi raccontano che hanno passato delle buone vacanze estive con le loro bimbe e che hanno ripreso i rapporti sessuali. Dedico quest’ultima seduta a capire e far capire che per lui bellezza é sinonimo di sicuro coinvolgimento della sua donna verso la loro nuova famiglia e che in questo lui si senta amato. Un episodio in cui lei gli aveva proibito di andare ad un concerto con una collega di lavoro aveva rafforzato in lui la sensazione che, allora, i permessi del «va con chi vuoi» non erano poi «veri», ma solo le parole di una donna disperata. Per lei il peso del sentirsi brutta e rifiutata come donna acquista un nuovo volto quando lui le spiega che la sua storia gli ha insegnato che il sentirsi abbracciato da lei in forma incatenante, gli provoca solo voglia di scappare. Quando può stimarla e apprezzarla, la vede anche bella.

Per testimoniare come all'operatore tendano a sfuggire gli aspetti positivi quando è sommerso dalla piena delle diagnosi negative di coloro che vuole aiutare, voglio narrare questa particolarità del mio comportamento che ha sorpreso anche me. Per redigere questo articolo sono andato a rileggermi i miei appunti, e solo adesso mi accorgo che quest'uomo mi aveva lasciato una traccia della cui importanza non mi ero reso conto prima: già in prima seduta, parlando di bellezza, aveva aggiunto: «non importa il fuori, ma il dentro». È incredibile come ciascuno di noi possa essere inebetito dal dolore di chi vuol aiutare!


Compito di sviluppo interrotto

A volte anche un modello relazionale che sembrerebbe opposto a quello della gabbia... costituisce una gabbia. Infatti, non è vero che per una coppia la scelta autoreferenziale del modello di comportamento a cui rifarsi non porti al disinnamoramento. In altri termini il disinnamoramento sembrerebbe avvenire non solo perché si scopre che le cose sono cambiate, ma anche per il motivo opposto: perché le cose non cambiano affatto! La tipologia di partenza è opposta, ma le conseguenze sono le stesse.

Ho presente una coppia il cui malessere ruota attorno ad un basso livello di coinvolgimento sessuale da parte di entrambi. Questo dato, che entrambi mi dicono presente fin dagli inizi della loro relazione e che è proseguito anche dopo il matrimonio, presenta un incastro relazionale all'apparenza molto urbano, ma con un grosso disagio di fondo.

La moglie era la prima di due figli e veniva da una famiglia dove aveva rapporti a dir poco burrascosi con i genitori e con un padre dominante, verso il quale si sentiva perdente. A 17 anni, quando conosce il futuro marito, è attratta dalla dolcezza di lui e dalla di lui non-impositività, pur essendo lui maggiore d'età. La gestione sotto tono della sessualità da parte di questo ragazzo era un motivo per lei, allora, di fascino.

Ai tempi del loro incontro il marito aveva 24 anni e un fidanzamento alle spalle. Lui si sentiva a sua volta protetto dalla sicurezza con cui lei accettava questa sua gestione sotto tono della relazione, in chiave più affettiva che sessuale. Lui, infatti, era alla ricerca di una persona dolce che prolungasse il pacato rapporto affettivo avuto con la madre (morta da 4 anni) e non gli ricordasse la «distanza» paterna.

La coppia, durante le sedute, mantiene una relazione corretta, ma è sconvolta dal fatto che la moglie ritrovi ogni giorno di più se stessa come donna e non si accontenti più di un rapporto fraterno con il marito. Questa novità sconvolge la moglie (che non sa se sia giusto dare voce all'esigenza di un amore anche sul piano sessuale) e sconvolge il marito (che non si aspettava che il «primo contratto» relazionale -quello fraterno, improntato alla soddisfazione di esigenze maturate all'interno della loro coppia in modo autoreferenziale e collusivo, ma in fondo appreso da ciascuno dei due nella propria famiglia d'origine- potesse mutare e assumere una connotazione diversa).

Il mio lavoro con questa coppia non portava apprezzabili miglioramenti e feci un invio ad una sessuologa. Alcuni anni dopo seppi che la coppia aveva preso di comune accordo la decisione di separarsi e di interrogare il tribunale ecclesiastico sulla validità del loro matrimonio. A noi non spettava precedere la decisione ecclesiastica. Anzi, pur nell'apparente inutilità degli sforzi fatti, abbiamo la sensazione di aver aiutato queste due persone a vivere con maggiore consapevolezza una stagione dolorosa della propria vita.

La prima relazione d'aiuto che si può offrire ai coniugi è vedere anche per loro oltre la delusione e il disinnamoramento. Ad esempio si può apprezzare che le due persone vengano assieme a chiedere aiuto, si può apprezzare che in certi momenti affiorino lealtà e stima reciproca. Solo la loro storia dirà poi a loro stessi come si vanno muovendo. Intanto, usare la spiegazione del circuito della delusione e ridimensionare la loro autodiagnosi sono già un'opera preziosa.


La parola ai protagonisti

C’è poi l’usura del tempo. Che porta a scegliere tra il condursi reciprocamente alla santità o un’onesta fedeltà, ovvero tra il desiderio di vita in pienezza o la mediocrità.

Nei primi anni c’è la generosità, il temperamento dell’età, il primo donarsi, la certezza che riusciremo certamente a tradurre in vita concreta i nostri desideri.

 Quella di trovarsi pienamente d’accordo su una linea da seguire è un’illusione provvisoria, ma ci si crede perché senza di quella –forse- nessuno avrebbe il coraggio di sposarsi. Amarsi e capirsi sembra cosa ovvia, fuori discussione. 

Le esigenze della vita sponsale appaiono soprattutto sotto il loro aspetto sensibile: anche per quanto riguarda la sfera spirituale.  Ad esempio vita sobria è intesa come regolamentazione puramente materiale: acquisti equi e solidali, fare offerte, dare aiuto concreto…. Anche i discorsi sul reciproco ascolto, fare il primo passo per la riconciliazione… quelli insomma che si ascoltano negli incontri preparatori al sacramento non presentano difficoltà insormontabili: all’inizio diamo totalmente credito all’altro/a e siamo spontaneamente docili.

Dopo, ci sono anni, anche tanti, di unità e intreccio. Siccome la relazione è una sorta di vasi comunicanti e ogni dimensione rivela lo stato di salute dell’altra, se c’è un rapporto trasparente con lo sposo/a, c’è anche una buona capacità di accettare se stessi, un giusto equilibrio nell’uso delle cose e un ascolto disponibile alla parola di Dio. Se in uno di questi ambiti c’è tensione, ci viene naturale non sentirci autentici con noi stessi e neanche con gli altri. Se ci rivoltiamo rabbiosamente al coniuge, siamo intolleranti verso i figli, o ci lamentiamo continuamente del lavoro, dei soldi,… avvertiamo subito che non possiamo raccontare a noi stessi che stiamo vivendo uno splendido rapporto con il Signore

Sì, ci pare che con un po’ di coraggio si possa fare. Difficile, sì. Impossibile, no. Con un po’ di coraggio!


Con il tempo…

Ci si crede meno, alla meraviglia della nostra unione. Parliamo meno, non chiediamo più spiegazioni all’altro/a ma ci spieghiamo da soli le ragioni dell’altro/a che, dopo tanto tempo, presupponiamo di conoscere sufficientemente bene. Comunicazioni di routine: «vai tu? No, vado io!». Filtriamo ciò che l’altro fa o dice con una sorta d’interpretazione automatica dei comportamenti che irrigidisce in una serie di schemi negativi provenienti dal passato e dai quali c’è sempre meno via di scampo.  Nessuno è malintenzionato né l’amore si è affievolito. Capita, così, senza quasi accorgersene.

Ci troviamo a dialogare non con lui/lei ma con l’immagine di lui/lei che ci siamo via via costruiti attingendo ai suoi lati negativi. Senza rendercene conto, abbiamo sempre davanti la mappa dei suoi limiti. E questi limiti, sempre ben evidenti, corrispondono alla mappa di quelle ferite che abbiamo subito nel corso del rapporto e che non sono state sanate dalla riconciliazione.  Parliamo meno. Arriviamo forse anche ad allontanarci dall’Eucarestia, perché avremmo bisogno di una bella confessione, che peraltro non riusciamo a trovare il momento giusto per fare. Ci sono anche tentazioni nuove: quel collega così attento, pronto a colmare -senza fatica- il desiderio di comprensione da tempo frustrato con il nostro compagno (a questo punto, dire sposo ci evocherebbe con nostalgia qualcosa di buono).

E con il tempo che passa e la disattenzione che resta, ecco che alla fine il disagio assume una chiara esigenza interiore: vorremmo fare della nostra vita qualcosa di più interessante!

A questo punto, quello che all’inizio pareva fattibile, ora appare impossibile.


Davvero impossibile

Arrivare a sentire così è normale. Senza che vi sia stata infedeltà grave né abbandono da parte del Signore.

Che fare? Come uscirne?

Se non abbordiamo francamente questa fase -che non è crisi ma presa di coscienza dell’impossibilità radicale per le forze umane di vivere in pienezza una vita sponsale- ci chiudiamo in un larvato scoraggiamento che intristisce. Oppure, nell’accettazione semicosciente della mediocrità, abbassiamo il nostro ideale ad un livello accettabile, reso possibile da una serie di compromessi rispetto ai desideri originari; cerchiamo una ragione di vita alternativa che sia bene o male conciliabile con un’osservanza onesta ma sommaria della nostra scelta sponsale (i figli, le amicizie, una certa frequentazione della Parola, un impegno sociale, il lavoro…).

È vero: scoraggiamento o compromesso portano, entrambi, ad un allontanamento, più o meno netto, dal nostro sposo, nel quale non poniamo più fiducia piena, al quale non affidiamo più il nostro cuore. Viviamo divisi tra la realtà in cui annaspiamo e ciò che ricordiamo di aver desiderato. Sperimentiamo una fatica superiore alle nostre forze. Ci sembra di aver fallito.

A questo punto a che serve tentare l’impossibile?

Ciò che non sappiamo è che questa tappa non rappresenta un regresso ma la base dalla quale ripartire. Partenza che per noi è possibile solo abbracciando con più forza Cristo Gesù credendo alle Sue parole: «presso gli uomini è impossibile, ma non presso Dio: tutte le cose infatti sono possibili presso Dio» (Mc. 10,27). È entrando nella dimensione spirituale che l’impossibile non significa utopico ma più grande di noi: un mistero di grandezza al cui ritmo sintonizzarsi con la forza di Chi benedice, cioè dice bene, parla bene di ciascuno di noi e di noi come sposi.

È importante accettare che l’appesantimento della vita di coppia non è la fine di qualcosa ma il segno di una nuova chiamata.


Non sarà come agli inizi

Oggi, il donarsi tocca zone più profonde ed essenziali di noi stessi. È perciò difficile paragonarlo a quello degli inizi, perché la conoscenza dei nostri bisogni, desideri, schemi e di quelli del nostro sposo/a è totalmente diversa: la consapevolezza di ciò che ci muove e, più spesso, delle forze che ci agiscono nostro malgrado è molto più profonda.

Non si tratta di ritrovare, in modo artificioso, l’entusiasmo di quando eravamo sposi novelli bensì di vivere pienamente la nostra chiamata di sposi.

È qualcosa di nuovo e di più. Possibile solo se c’è la rinuncia a «salvare» la nostra vita dagli approdi -ai nostri occhi sicuri- dello scoraggiamento e della mediocrità.

Dopo aver sperimentato la durezza dei limiti, scopriamo quindi che siamo chiamati a partire proprio da qui: i nostri limiti non sono più segni di dolore e di morte ma diventano, come il segno dei chiodi e della lancia nel corpo del Risorto, simbolo del passaggio dalla morte alla vita.

Silvia e Leonardo Dallai, Firenze