Il triangolo del presiedere


Luigi Maramotti
Tredimensioni, 2(2005)2, 170-180

 

Qualche tempo fa un amico mi chiese, nell’ambito di un seminario sulla presidenza tenuto ad alcuni giovani preti della sua diocesi, di parlare della mia esperienza di presidente di un’impresa e del significato di questo ruolo. Fui felice di accettare per una ragione molto semplice: pur essendo ormai da molti anni presidente di una società, non avevo mai avuto occasione  di riflettere sul significato di questo mestiere e  anzi forse, a  ben pensare,  avevo deciso di fare questo lavoro con una certa incoscienza. Soffermarmi un po’ più approfonditamente sul senso della mia professione mi è quindi sembrata una felice opportunità.

Partendo da questa considerazione penso di avere già anticipato una risposta importante e cioè che deve sempre esserci, nell’esercizio della leadership, una consapevolezza profonda unita, però, ad una non trascurabile componente di istintività: il semplice apprendimento di un insieme di regole e quindi di una tecnica specifica non può considerarsi sufficiente.

A guardare la fiorente letteratura che popola gli scaffali delle librerie specializzate in managment, si potrebbe pensare il contrario. In realtà, e questo non è un male, la complessità del ruolo del leader, la sua evoluzione e il bisogno crescente che ne hanno avuto le società basate su sistemi economici avanzati, giustificano una riflessione continua sul tema: come si guidano nel modo più efficace i collaboratori. Riflessione talmente continua che quest’idea della istintività collegata alla dimensione dell’esperienza pratica, alla fine, è stata anch’essa teorizzata. Oggi si parla infatti frequentemente di management by IKIWISI: un acronimo anglosassone che sta per I Know It When I See It, che potremmo tradurre liberamente con capirò quando vedrò.

Proviamo ora a considerare  da vicino la parola presidente. Essa deriva direttamente da presiedere  che etimologicamente significa «stare seduti davanti in posizione formale di dominio». Derivazione latina come quella di presidiare, che attraverso il termine presidio è legata a doppio filo a presiedere e che, significa «stare seduti davanti, ma in posizione di difesa». Se cerchiamo poi la radice greca, troveremo che prae del latino praesedere (controllare) deriva da parai (accanto) e che sedere deriva da edoV (fondamento, sede), da cui paraiedoV, «stare accanto», dove l’elemento gerarchico si stempera per dar più rilevanza all’idea di vicinanza, di presenza.

Possiamo quindi dire che la presidenza è un ruolo che si gioca all’interno di questo triangolo:

 

                                         stare innanzi

 

                   proteggere                              stare a fianco

 

 

Prima di approfondire questi tre significati è essenziale fare una premessa: presiedere  significa occupare un ruolo.


Un ruolo su misura ma anche oggettivo

Quella del presidente è l’interpretazione di un ruolo che non va esclusivamente ricevuto ma anche (e soprattutto) indossato e fatto proprio e, come qualsiasi diritto-dovere, esercitato. Il termine ruolo identifica una parte viva che il soggetto è chiamato ad interpretare; l’identificazione del ruolo deve essere eseguita da colui che lo impersona per evitare che altri lo facciano al suo posto.

Una delle definizioni di ruolo che Luciano Gallino offre nel suo Dizionario di Sociologia recita infatti: «l'insieme delle norme e delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa una determinata posizione in una più o meno strutturata rete di relazioni sociali, ovvero in un sistema sociale. Norme e aspettative provengono dagli individui che occupano le posizioni collegate a quella del soggetto … Queste norme che hanno carattere esterno, oggettuale, in varia natura obbligante e costrittivo sono suscettibili di diverse interpretazioni, e a seconda della situazione possono essere in varia natura rispettate o ignorate e evase. Il loro insieme, il ruolo, non deve essere confuso con il modo in cui l'individuo che occupa una data posizione effettivamente agisce; questo si dirà comportamento di ruolo, e il grado in cui questo si avvicina o meno al ruolo è detto grado di conformità o, all'opposto, di devianza».

Quindi abbiamo un «ruolo» che possiamo considerare oggettivo ed un «comportamento di ruolo» che invece ha le caratteristiche soggettive dell’individuo che lo interpreta.

Tutto ciò è importante perché ha a che fare con l’identità di colui che presiede, ossia con il suo stesso modo di rappresentare se stesso a se stesso. Come il leader vive questo ruolo, come lo sente è determinante per il come lo attua. Nell’elaborare soggettivamente il proprio modo di presiedere, l’interessato oltre che servirsi delle sue doti e delle competenze acquisite, deve far riferimento anche ad una fonte esterna. Infatti occorre tener presente che la presidenza è un ruolo ricevuto. Altri hanno limitato se stessi per conferire potere ad uno di loro. Questo concetto in realtà è molto antico ed è alla base dell’idea politica di monarchia prima dell’avvento dell’assolutismo. La leggenda di Re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda -presente peraltro  con varianti minime in più culture- ne è un buon esempio: Artù non è re per discendenza dinastica, egli è primus inter pares, scelto  come  guida da altri cavalieri per le sue doti di coraggio rettitudine e lealtà.

Proviamo ora ad analizzare i vertici del triangolo che abbiamo indicato come perimetro di interpretazione della figura della presidenza.


Stare innanzi

Significa impersonare il ruolo, come fa il barbone e ubriacone Kagemusha, protagonista del film di Akiro Kurosawa, celebre regista giapponese. Nel film si narra di un famoso samurai, i cui servizi sono talmente richiesti e la fama talmente grande che deve farsi aiutare da controfigure (guerrieri ombra) ai quali basta apparire su un campo di battaglia con le vesti e le insegne del loro signore, per volgere lo scontro in favore della fazione appoggiata. Quando il vero samurai muore in battaglia, il suo guerriero ombra più somigliante, Kagemusha, è costretto ad impersonarlo definitivamente fino a compiere un imprevedibile atto di eroismo che sancisce la finale e metaforica fusione tra l’impersonare e l’essere.

Ho rivisto più volte questo film perché trasmette con efficacia un principio molto importante: lo stare innanzi è fatto di contenuti e iniziative, ma non sono queste a realizzarlo. Si può stare innanzi anche senza fare cose particolari. Per questo l’ho definito un modo di essere. È la disponibilità ad assumere in mezzo agli altri, una posizione avanzata, con i rischi che questo comporta. Nel fare ciò, sono importanti anche gli aspetti esteriori e visibili; le immagini del film ne sono conferma: il comportamento dell’attore ombra non rappresenta forma ma è sostanza quando simbolizza questa disponibilità. Ciò da luogo a quel principio di visibilità, a volte così a torto inviso a chi ricopre certe cariche ma preferirebbe l’anonimato.

Questo aspetto di esteriorità della presidenza è stato progressivamente sempre più criticato nella seconda metà del secolo passato, e le ideologie degli anni ’60 hanno messo in discussione i ruoli in quanto tali.

In seguito, quando si è capito che l’eliminazione delle gerarchie era impraticabile almeno nelle istituzioni politiche, sociali ed economiche principali, si è preferito comunque, soprattutto nei paesi occidentali ed in particolare negli Stati Uniti, connotare l’ interpretazione  dei ruoli di vertice con uno stile informale e apparentemente amicale e non gerarchico, pensando così di smorzarli  e di renderli politicamente corretti, come si dice oggi frequentemente. Abbigliamento sportivo, abolizione del lei, agilità, efficienza, esperienza sul campo sono alcuni dei connotati di questa tendenza, che definirei stilistici. Queste influenze hanno portato al livellamento dei ruoli con un possibile appiattimento nel livello di delega nelle gerarchie sottostanti le presidenze.

Paradossalmente però, questa tendenza non ha che rafforzato l’idea dello stare innanzi, fino al punto di personalizzarla e renderla indeterminata nel tempo, con alcune controindicazioni. È accaduto in economia nel caso emblematico di Steve Jobs alla Apple e di Bill Gates alla Microsoft, di Arafat per i Palestinesi, Castro a Cuba in politica o di Avalanche al vertice del Comitato Olimpico Internazionale, solo per fare alcuni esempi di leader-guru di fatto intoccabili.

Vorrei, invece, sottolineare che comunque il senso dell’autorità che esprime lo stare innanzi è fondamentale per il dinamismo dell’organizzazione.  Lo si vede chiaramente nelle questioni educative: chi è stato educato al senso di autorità, da adulto sa apprezzare la democrazia. Chi non è stato educato così, da grande cerca l’autorità anche accettando leadership assolutiste.  Ogni progetto complesso deve avere un principio di autorità e quanto più è criptico tanto induce a confusione e a rischi di limitazione delle libertà.


Stare a fianco

Consiste nello stare vicini a coloro ai quali si è data la delega, senza agire in prima persona. È quello che gli anglosassoni chiamano empowerment, una vicinanza volta allo sviluppo delle potenzialità degli altri.

Il principio della delega non significa, per chi la dà, rinuncia alla responsabilità e non significa, per chi la riceve, essere abbandonato dal delegante. Il rispetto dell’autonomia che sottosta alla delega data è un fattore cruciale per la presidenza perché misura la capacità di essere presidente e questo lo si vede in particolar modo quando il delegato è in difficoltà. In tale frangente, la tentazione è di sostituirsi a lui, anche se solo per una volta e a titolo propedeutico. Purtroppo così facendo, si rompe il rapporto fiduciario che è alla base della delega. Si tratta, piuttosto, di saper attendere senza limitarsi a stare a guardare passivamente. Attendere per poi stare a fianco per aiutare l’altro a rileggere la sua esperienza, in modo che sia lui stesso a migliorarsi in preparazione della successiva opportunità.

Questa capacità è fondamentale per due ragioni. Innanzitutto, per il tipo di lavoro del presidente, che si basa soprattutto sul rapporto con le risorse umane, con la finalità di creare interazioni immediate. Poi, perché un’organizzazione è un sistema complesso che per sua natura fallisce se nei fatti è gestito da una persona sola.

È facile sottovalutare la difficoltà di vedere gli altri sbagliare. È evidente che questa affermazione non può, viste le premesse, avere un senso assoluto, infatti il presidente può giudicare solo in relazione alle sue convinzioni,  che sono soggettive. In realtà  questa è la fatica più grande, in quanto chi agisce nell’ambito delle proprie deleghe (il delegato) sa di doverlo fare con rapidità seguendo  la propria convinzione e in fondo risponde per sé o per persone che dirige  a sua volta, ma in presa diretta. Chi in vece è al vertice di  un’organizzazione presiedendola, è obbligato a riportare sempre il giudizio dell’operato di  un suo sottoposto su un piano più strategico e di lungo periodo, volto alla conservazione e crescita della risorsa stessa. Ciò  evidentemente, non senza meccanismi di salvaguardia, che si rendono necessari quando il danno presunto si estende ben oltre una logica propedeutica. La sicurezza di sè è infatti qualità essenziale di un buon leader, soprattutto se associata alla capacità di avere dubbi legittimi, quando è il momento di ponderare le soluzioni possibili.

Ma stare a fianco, in questo caso, non significa, nè mai lo potrebbe, essere affiancati dagli altri.  La solitudine che ne deriva è una delle caratteristiche intrinseche alla leadership e richiede una capacità che non tutti hanno di cercare in se stessi le risorse necessarie per trasformare in forza e non  in debolezza il confronto di singoli con la decisione ultima.

Il processo di affiancamento, però conserva una valenza di bidirezionalità: coloro che circondano il leader nell’esercizio delle sue reponsabilità, devono dare il loro contributo attraverso la manifestazione  esplicita del loro pensiero ed in questo caso la presidenza diventa possibilità di fluidificare il confronto tra opinioni contrastanti  per produrre una sintesi.


Proteggere

Il verbo dice del rapporto di fiducia che si è instaurato nel momento in cui gli altri hanno riconosciuto il ruolo del presidente. Una delle caratteristiche del leader è che deve amare le persone, perché altrimenti perde la possibilità di farsi seguire spontaneamente e potrà ottenere questo risultato solo coercitivamente, con le ovvie conseguenze di mancanza di coinvolgimento e propulsione verso il raggiungimento dei risultati. Questa dote è il contraltare della capacità di stare e decidere in solitudine di cui abbiamo parlanto in precedenza.

Per il legame che esiste fra l’incarico di presidente e la fiducia ricevuta che esso sottende, all’occasione dei grandi fallimenti aziendali bisognerebbe riscoprire la categoria del tradimento. Sappiamo, ad esempio, che nella cultura giapponese, il presidente di un’azienda che fallisce (anche quando questo evento non è dipeso solo dal suo comportamento ma magari da  quello di suoi subordinati disonesti),  come singolo si inchina profondamente verso azionisti, dipendenti, la intera comunità politica e sociale, e chiede scusa pubblicamente: infrangere le regole di conservazione e trasmissione di una tradizione (l’on) che viene dalle generazioni  o, come in questo caso, dai presidenti precedenti è uno dei crimini più grandi di quella società.  Questo uso media l’idea che al presidente sia stato consegnato da proteggere qualcosa di più di un valore strettamente materiale come il patrimonio della società e la sua capacità di generare reddito e benessere sociale.

Ma il modello americano ed occidentale in genere, guarda per lo più al danno economico provocato dal fallimento di un’impresa o di un’iniziativa istituzionale.  In un certo senso il nostro è un universo rovesciato rispetto a quello giapponese. È singolare, ma sintomatico, come il neo eletto presidente degli Stati Uniti abbia considerato la sua rielezione per un secondo termine «il guadagno di un capitale politico da spendere durante il mio mandato». Questo uso di termini economici rispecchia la tendenza dell’economia ad acquistare il monopolio dei riferimenti archetipici del nostro pensiero. È in questa fattispecie che inquadrerei la volontà di dare al ruolo del presidente  di una società il significato di garante del sistema economico anche in senso giuridico.

Questa tendenza comunque, non metterebbe in crisi l’idea di protezione che stiamo approfondendo (in fondo le banche, in genere, proteggono de facto il capitale dei risparmiatori), semplicemente la renderebbe molto relativa e impoverita, in quanto comporterebbe la perdita completa dell’idea di gratuità del servizio reso agli altri da parte di chi presiede. L’idea di servizio è fondamentale per dare alla presidenza una dimensione più allargata e piena di significati immaginando una pienezza del ruolo.

Il verbo proteggere, secondo la mia opinione, deve anche comprendere l’abilità di garantire gli spazi di formazione permanente che ogni organizzazione può fornire: non semplici occasioni di aggiornamento culturale per i propri membri, ma vero incremento delle loro competenze affinché sappiano assumere ruoli diversificati. Ciò che soprattutto va garantito è comunque la loro crescita come persone capaci di autonomia. Chi presiede assume per il suo mandato anche questa responsabilità.


Alcune qualità indispensabili

Ci sono, è ormai codificato accademicamente, stili di leadership differenti: chi è più autocratico, chi è democratico, chi è permissivo…

Si dà per scontato, comunque, che chi presiede possegga le qualità necessarie per farlo: questo non è sempre vero purtroppo, ma, per cominciare, già potrebbe essere difficile trovarsi d’accordo sulla natura di queste qualità.

Ne vorrei però proporre alcune che considero indispensabili e difficilmente discutibili, a prescindere dallo stile adottato. Provo ad elencarle:

  • Sensibilità di ruolo
  • Rispetto della ritualità
  • Capacità di ascolto
  • Capacità di visione
  • Capacità di decisione
  • Capacità di attivazione
  • Assenza di vanità
  • Capacità di autovalutazione

 

La sensibilità di ruolo l’abbiamo gia presa in considerazione parlando in generale dell’importanza del ruolo. Essa rappresenta forse la qualità meno semplice da connotare. Lo si può fare facilmente in negativo però: non è difficile trovare persone che si trovano fuori posto rispetto al loro incarico. Un esempio semplice è dato dal rapporto con la parola. Essa va soppesata perché ha un peso specifico diverso da quella di un collaboratore anche con un’ampia delega. Quando si parla di avere l’ultima parola si fa proprio riferimento a questa condizione: il presidente ha davvero l’ultima parola, ma deve sapere che quando la spende, facilmente la strada è poi senza ritorno.

Il rispetto della ritualità è consequenziale alla sensibilità di ruolo, ma richiede una naturale abilità interpretativa, che rafforzi la percezione delle gerarchie nei terzi. Un esempio banale è l’opportunità che nelle riunioni, sia interne a un gruppo organizzato che esterne ad esso, il presidente entri per ultimo.

La capacità di ascolto ha un’importanza intuibile, ma forse va specificato che l’ascolto deve essere veramente partecipativo, interessato e personale, per permettere sia il rafforzamento del rapporto che la contribuzione attiva al processo decisionale da parte delle persone che vengono interpellate.

La capacità di visione rappresenta una qualità intrinseca alla persona che occupa questo ruolo. È fondamentale perché, anche se coloro che di pendono dal leader non lo diranno mai, lo sguardo capace di vedere in lontananza è ciò che apprezzano e si aspettano da lui per ricevere una forte sensazione di fondamentale sicurezza e protezione che permette loro di vivere in serenità il lavoro quotidiano, nella consapevolezza che il futuro non è incerto.

La capacità di decisione è fondamentale per il funzionamento intero dell’organizzazione e per la sicurezza che infonde. Si dice spesso che una decisione non perfetta presa rapidamente e senza tentennamenti è comunque meglio di una decisione più ponderata e più giusta ma meno rapida.

La capacità di attivazione è l’abilità di partire con forza ed entusiasmo per rimuovere un  problema, per fare decollare un progetto o per rianimarlo. Deve essere consequenziale all’abilità di controllo, che però puo non essere una qualità del presidente bensì del sistema che egli governa e che gli segnala le priorità di intervento.

L’assenza di vanità più che una qualità è una caratteristica auspicabile, perché sottende l’avere compreso forse l’aspetto più rilevante della leadership: essa non è permanente e dovrebbe essere intesa nel suo esercizio, anche come atto di generosità, naturalmente non verso se stessi.

La capacità di autovalutazione permette l’esercizio della auto-leadership. Il presidente è sempre alle prese con l’autovalutazione, cioè con il controllo di qualità del proprio lavoro mentre lo porta a compimento. Questo richiede una grande lucidità e una costante capacità di verifica del proprio operato. Anche se la cultura in cui viviamo non ci aiuta, perché tende a rifiutare la valutazione. Il fatto che il presidente, spesso, non produca operativamente singoli risultati non impedisce l’attività di verifica: è sufficiente che abbia definito per tempo degli obiettivi -che per definizione sono sempre un misto di aspetto quantitativo e qualitativo- e guardi se e come sono stati attuati da altri sotto la sua guida.


Partire da sé

Il criterio dunque è quello della capacità strategica e non la risposta degli altri al suo ruolo. Un leader, ad esempio, non può dire che avrebbe voluto fare alcune cose ma poi le richieste delle persone lo hanno spinto a fare tutt’altro. Costruirsi alibi è un segno d’inadeguatezza e di debolezza al tempo stesso.  Se le persone che guida non rispondono, deve riesaminare il modello relazionale che ha instaurato. È per questo che ogni buon presidente perde tempo per individuare persone che facciano quello che lui non può, non deve e non vuole fare

 Partire da sè rimane l’esercizio più difficile ma anche il più necessario. Poiché il presidente occupa il vertice deve essere capace di oggettivare la sua guida attraverso modalità che peraltro sono sempre state intuite come fondamentali nella storia dell’umanità. Dal «conosci te stesso» di Socrate al «dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo» del Mahatama Ghandi.

Per concludere vorrei soffermarmi brevemente sul concetto di abbandono o termine della presidenza. Non se ne parla spesso, ma il principio di temporaneità legato alla carica è molto importante. Accennavamo prima all’idea di un mandato a termine che va restituito dopo che lo si è accettato con spirito di servizio. Nella storia dell’umanità spesso non è stato così ed è comprensibile. La vicenda di Cincinnato è passata ai posteri perché un tale comportamento, anche ai tempi dei Romani, non era considerato prassi comune. Gli uomini infatti hanno spesso cercato di trasformare la temporaneità della leadership in permanenza: pensiamo a Cesare, Napoleone I, Napoleone III, il generale Eisenower, De Gaulle e tanti altri… È una comprensibile forma di debolezza che credo sia da collegare alla difficoltà di immaginarsi, al termine di un mandato, altrove, magari nell’esercizio di una funzione con un contenuto diminuito e riduttivo rispetto a quello rappresentato dalla presidenza, in una condizione di evidente, insopportabile normalità.

L’esercizio della leadership richiede coraggio, perché attira, galvanizza e motiva fortemente coloro che vogliono realizzare un progetto. Ma non può e non deve durare per sempre; allora, al leader viene chiesto anche un ultimo atto di coraggio: quello di ritirarsi al momento opportuno.
E sapersi ritirare è l’atto di coraggio forse più difficile.