Non è bullismo


Editoriale
Tredimensioni 4(2007) 3, 228-233



Storie sconcertanti. Ragazzi che ammazzano i genitori. Scene di guerriglia negli stadi. Aggressioni e violenze sessuali in classe riprese con il cellulare e diffuse in rete…

E noi adulti abbiamo la superficialità di etichettare tutto ciò come bullismo.
Invece, qui assistiamo ad irruenti scariche di forze istintuali senza prospettiva. Atti distruttivi. Non contengono nulla di buono da indirizzare. Non sono difficoltà di percorso, ma deragliamento. Rientrano nella categoria degli acting-out, che sono un cortocircuito fra stimolo interno e azione, una scarica impulsiva, immediata senza passare attraverso la valutazione razionale.


Il bullo è un’altra cosa

Il bullo vuole dimostrare la propria superiorità scegliendo obiettivi alti, troppo alti per la gente media.
Ha la mira di affascinare e non quella di distruggere.
Usa i mezzi della ostentazione di sé e non del nascondimento e della fuga.
Fa offerte di seduzione e non di violenza.
Si rivolge a prede attraenti e non a quelle indifese.
Opera in una rete sociale di compagni e non in un branco di anonimi complici.
Programma la sua azione e non fa irruzioni impulsive.
È mosso dall’eccitamento e non dalla noia.
Fa parte dell’esperienza adolescenziale: è modalità normale (cioè prevedibile) per esprimere il disagio tipico di questa età e occasione di rielaborazione del proprio vissuto in vista di un esito più maturo.

I bulli erano i vitelloni del film La dolce vita di Fellini, i «pappagalli» italiani che corteggiavano le biondone nordiche scese sulle nostre spiagge estive. Vi immaginate i nostri ragazzi, quelli che stuprano a scuola l’handicappata, a fare la scalata alla vichinga superdotata? Scappano via atterriti. Bullo era Alberto Sordi che faceva la pernacchia a chi gli era antipatico, ma lo lasciava in vita per poterlo ri-incontrare e fargliela un’altra volta con goduria estrema. Non uccideva al primo colpo per stroncare il rischio di un secondo incontro e soccombere. E, se scoperto, il bullo DOC quasi quasi convinceva anche il suo avvocato della grandiosità della sua impresa e gli proponeva di unirsi a lui nella ripetizione. Non gli implorava, come un pulcino bagnato, di arrampicarsi sugli specchi per salvarlo: «Non voleva, era sonnambulo, ha partecipato ma solo in parte, non immaginava che…».


Subito pronti a chiudere un occhio

L’abilità di noi adulti di chiamarci fuori non ha confini.
Con la parola bullismo esprimiamo riprovazione e sdegno che subito diventa un sorriso benevolo a passarci sopra… con la messa in scena – è il secondo atto – della lubrificante parola: perdono invocato e concesso. Così, si chiude la faccenda in bellezza, senza averla vista in faccia. Un perdono che meglio sarebbe chiamare farsa collettiva dato che il perdono richiede previamente la consapevolezza del danno fatto e il risarcimento.


Per non vedere

«In fondo… sono ragazzi!». Non per dire: sono rimasti congelati ad uno stadio di sviluppo psichico arretrato rispetto alla loro età e alle esigenze di realtà. Ma per dire: alla loro età, ciò è anche comprensibile. Appunto: sono ragazzi.
Sono le 2 del pomeriggio e Michele – 27 anni – dorme nella sua stanzetta. Sempre quella, dove era stato fasciato da neonato. La mamma si aggira per casa con passi felpati per non disturbare l’undicesima ora di sonno del suo ragazzo. «Ieri ha fatto tardi. L’ho sentito rientrare alle tre del mattino». «Da un viaggio di lavoro?». «No dalla discoteca, credo. Ma è un bravo ragazzo, sa. Lavora tutta la settimana anche se prende solo 800 euro al mese che non bastano neanche per i suoi bisogni». «Quali?». «La benzina, le sigarette, il telefonino, la pizza con gli amici e un viaggetto quest’estate. Sa, sono ragazzi, mica possono fare la nostra vita?». «Quale?». «La mia. Ogni mattina alzata alle 6. Alla loro età io non sapevo neanche che cosa fossero gli atolli». La madre ha 55 anni e ne dimostra molti di più. Michele non si è mai accorto che sua madre ha il volto stanco.


Per tenere le distanze da loro
Li definiamo bulli anche perché le loro malefatte ci conturbano. Nell’accezione precedente il termine serviva da acqua sul fuoco, ora diventa barriera anti-fuoco. Li chiamiamo bulli per distaccarci da loro, prendere le distanze. Loro sono diversi da noi. Alla loro età noi NON eravamo così. Loro NON hanno più valori, NON hanno modelli, NON accettano sacrifici, NON hanno prospettive, NON hanno il senso di responsabilità, loro, la gente del NON, abitanti di un altro mondo che non è il nostro.
E qui inizia la lista stucchevole dei rimedi, tutti rivolti a dissodare la terra del NON, con raccomandazioni a non finire che durano il tempo del clamore della notizia e poi vengono archiviate in attesa del prossimo fattaccio. Sempre uguale… e sempre gli stessi commenti.
  • Dobbiamo trasmettere valori. Giusto. Ma le inchieste ci dicono che, i giovani, i valori li hanno ancora; eppure continuano a giocare con la vita. Frequentano l’associazionismo, il volontariato, la chiesa, la politica (pochi), l’ecologia, ma con appartenenze separate, per cui quei valori diventano beni di rifugio anziché dati intrecciati per dare forma ad una identità di sé.
  • Gli insegnanti devono proporsi come modelli. Sarà. Ma come possono farlo se verso di loro gli alunni non hanno stima né paura?
  • Ci vogliono ambienti di aggregazione giovanile. Giusto. Ma ciò vuol dire creare aree protette e riservate, dato che la società sarebbe per natura sua disgregante?
  • Dobbiamo inserirli nella società. Sì, ma quale? Quella dove il merito conta quasi niente?
  • Dobbiamo incrementare i punti d’ascolto giovanile. Per fare che cosa? Per dire a loro che la normalità di vita è un ideale da raggiungere domani mentre oggi possiamo divagare con loro nei meandri del loro mondo interiore; oppure per ricordare loro che è ora di affrontare la realtà con quel tanto o poco che hanno?
  • E infine, la briscola vincente: dare priorità ai giovani! Cioè, continuare a proteggerli con un eccesso di premure?


Aggredirsi con affetto
Non vedere/distanziarci. Proteggerli/indottrinarli. Accudirli fino allo stremo/criticarli. Noi del SÌ/loro del NO. Dare opportunità/giudicarli…
Ma mai solidarietà. Mai dalla stessa parte per concordare che cosa conviene essere. Parliamo di loro ma non con loro. Loro vivono con noi, ma nel loro mondo a noi ignoto. È saltata la solidarietà fra le generazioni. La distanza non crea solidarietà, ma neanche la troppa vicinanza la crea. Troppa cura o troppo poca non creano solidarietà.
La solidarietà è l’equilibrio fra unione e differenziazione. Due che si amano si desiderano uguali e pretendono (sì! pretendono) di restare uguali. Rispettano e vogliono anche le diversità, ma quelle che innalzano l’uguaglianza ad un livello più alto, non quelle che la spezzano. La solidarietà del padre che dice al figlio: diverso da me, ma non senza di me.
Non sappiamo guardare affettuosamente negli occhi dell’altro mentre lo mettiamo con le spalle al muro. Noi li guardiamo solo affettuosamente, loro ci mettono solo con le spalle al muro. E ognuno va per la sua strada.
Manca l’aggressività, quella del pulcino che spezza il guscio e viene alla luce, che mette sul tavolo i temi critici della convivenza. In famiglia non si fa più baruffa: o si tace o si uccide. Si misura la normalità sul buon tacere: «era gentile con tutti – dicono i vicini – mai una parola di troppo, badava ai fatti suoi; insomma un ragazzo normale e nessuno avrebbe sospettato che…».


A scuola di realtà
L’acting-out è un meccanismo di difesa che precede la formazione di un altro meccanismo di difesa: la repressione. Prima dell’emergere della repressione, il soggetto non riesce ancora ad organizzare, selezionare ed esprimere i propri bisogni in un modo che gli permetta di rispondere con competenza alle esigenze poste dalla realtà e, allo stesso tempo, di forgiare un’identità di sé stabile. Questa auto-regolazione è, appunto, possibile grazie alla repressione che non è un termine negativo, ma condizione di identità e senso di realtà. Senza questo strumento regolativo, i propri bisogni interni debordano incontrollati (acting-out) a scapito della realtà in cui si è immersi e addirittura con la pretesa di essere loro a definire lo svolgimento della realtà per arrabbiarsi, poi, se la realtà non segue queste prescrizioni soggettive.
Michele si è svegliato. Si trascina al frigo. Il suo yogurt preferito non c’è. Se la prende con la madre che gli promette di farne la scorta oggi stesso. Perché se la prende con la madre? Perché li deve comperare lei? E con i soldi di chi? Acquietato, ritorna in camera sua, ma non trova i calzini puliti. Stesse lamentele con la madre. Perché glieli deve lavare lei, quando lui non si accorge mai che il bidone della spazzatura va ormai vuotato?

Sette maschi su dieci, fra i 25 e i 29 anni vivono ancora con i genitori. In alcune regioni, nove su dieci. Le ragazze la metà. Se escono, ma l’esperimento va in crisi, ritornano dalla mamma. Una breve capatina nel mondo del reale e poi il ritorno nel mondo dei propri bisogni realizzabili senza venire a patti con la data segnata sulla carta d’identità.
Non è detto che andar via di casa sia la soluzione. Ma intanto ci si incomincia ad arrangiare. Il falso bullo non sa cosa vuol dire pagare una bolletta, tenere una lista spese. Non conosce i prezzi degli affitti; si dimentica di spegnere le luci perché non sa quanto costa la luce dato che non la paga lui. Non hai mai fatto la spesa ad un supermercato. Cioè, non ha mai frequentato la vita, se non quella dei suoi bisogni da inseguire. Ne va di mezzo l’elaborazione della sua stessa identità di genere. Infatti, il falso bullo è rimasto un bambino che non sa ancora definire di che sesso è.
Non c’è migliore terapia che il confrontarsi/scontrarsi con la realtà. Con la realtà non si può più giocare.


Il volto ingrato dell’amore
Conclusione amara. La reazione utile agli atti delinquenziali che bullismo sembrano ma non sono è la risposta (il più celere possibile) di ludibrio e di sanzione. Questa risposta perde il suo carattere educativo se trasmessa senza lo sguardo affettuoso che anche mette con le spalle al muro. Nel contesto del contatto empatico è atto pedagogico.
Ludibrio: per trasmettere l’idea che si tratta di atti da pusillanimi e da vili, forza di gruppo e debolezza individuale, prepotenza sull’animale debole del branco e non prova di coraggio… Dare il vero nome alle cose è il primo passo per far nascere una domanda di riflessione.
Sanzioni: per trasmettere l’idea che il legame sociale è un patto bilaterale e non, come il bambino pre-repressione pensa, palestra per scaricare i propri bisogni. E le sanzioni veicolano questa idea in termini di «fare» e non di «dire». Cioè, non decantando principi ideali del «dovrebbe essere e ancora non è», ma fornendo un’esperienza di «ciò che è e attende una risposta». Non è facile imparare a ragionare in termini di causalità (da A segue B): quando B non segue o è irrilevante, A si può rifare senza pensarci troppo...
La semplice riprovazione non serve per atti così dissennati. Se posso evadere le tasse a poco prezzo, perché pagarle la prossima volta? In questa ottica non sarebbe male che questi ragazzi passino tre giorni a pulire i lavandini di una casa per vecchi o ad imboccare un bambino cerebroleso che vomita sulla loro faccia. Non per sadismo nostro, ma perché si addestrino alla consolante esperienza di sapere reggere alla realtà.
Ma no...! Sono ragazzi! Vanno capiti, questi nostri, teneri ragazzi!