Il maschio senza il maschile
Tredimensioni 9(2012) 116
Stiamo diventando tutti un coro di voci bianche, depilati e senza peli. È anche per questo che nella nostra cultura si diffonde l’idea che l’amore effeminato è normale e forse anche meglio.
Stiamo parlando dei maschi e della loro «identità di genere» che è antecedente alla «identità sessuale». Prima di percepire se il proprio «oggetto» erotico è un maschio o una femmina bisogna percepire che «maschile» e «femminile» non sono la stessa cosa, che sono due generi diversi e sentire - nell’insieme della nostra persona - a quale genere apparteniamo. Si può discutere su che cosa sia maschile o femminile, ma sembra che una qualche differenza ci sia.
Stiamo dunque dicendo che il maschio soffre di una identità di genere.
Certo l’identità di genere è un problema anche per la bambina. Anche per lei entrano - in un gioco di introiezioni e proiezioni - fattori genetici, familiari, caratteristiche relazionali, fantasie, emozioni, schemi culturali e sociali… La cosa si complica ulteriormente quando la letteratura in proposito ci dice che l’identità di genere deve svilupparsi in sintonia con la «soggettività di genere». Una volta appurato di che genere siamo, dobbiamo appurare che «idea» ci siamo fatti del nostro e dell’altrui genere, che significato soggettivo (inconscio) si dà al «maschile» e al «femminile». Per cui l’aver avuto una madre depressa può portare il maschio a collegare la depressione al concetto di donna. O, per il dato culturale, ritenere che bella è la donna filiforme, mentre per altre culture o secoli la donna bella era quella piuttosto formosa. E ancora non è finito, perché bisogna, - nel tempo - mantenere la costanza della propria identità e soggettività di genere.
Ma tutto questo, per la bambina è più facile. Come il suo fratellino, incomincia a percepire se stessa come separata dalla madre («io non sono te»), ma a differenza di lui continua a identificarsi con lei («io sono come te, io sono donna»). La femmina tesse la sua identità nella continuità («io non sono come te, ma anch’io sono donna come te»). Il maschio, invece, la deve tessere anche nella discontinuità («Io non sono come te, io non sono donna»). È nella sconnessione che inizia la sua identità di genere e - ci dicono gli esperti - se nel frattempo non c’è la figura del padre, possono nascere dei guai. Su questo punto, non sembra proprio che sia stata la femmina a uscire da una costola del maschio, ma il contrario.
Femmine, tenete in conto che i maschi, se sono più deboli e problematici di voi, è perché fanno più fatica a sentirsi maschi che le femmine a sentirsi femmine: la loro relazionalità nasce dalla separazione e non da una continuità, da una negazione e non – come per le femmine - da una affermazione. Il senso di continuità della bambina con la madre fa sì che lei possa più facilmente raggiungere l’identità.
Non infierite troppo se è più facile che una donna si trovi a fianco un bambinone piuttosto che il contrario: che un uomo si trovi a fianco una bambinona. Tenete in conto che per lui riempire la sua casella che porta il titolo «non sono donna…, e quindi sono…» non è un’impresa facile e la può riempire con contenuti patetici di tipo maschilista o, in alternativa, lasciarla vuota in un ermafroditismo trans-gender, da voce bianca.
Per la bambina la differenza «io non sono mia madre» non è così problematica. Per il maschio lo è un po’ di più. La femmina è più attrezzata alla relazione: non deve definire se stessa a partire da un’affermazione negativa («io non sono...»), è più incline alla relazione e la sa difendere con più tenacia: se in una coppia è la donna che va in crisi, la prognosi è più infausta; un po’ meno se è lui in crisi ma lei tiene. Il problema della donna non si situa tanto nella identità di genere, ma nella separazione, nell’autonomia, nel processo di indipendenza che si presenterà nelle tappe successive alla sua identità acquisita e dobbiamo dire che su questo cammino di strada ne ha fatta anche se talvolta dai contenuti patetici, questa volta femministi.
Forse è giunto il momento che i maschi pensino a percorsi di auto-consapevolezza al maschile. In una società come la nostra, di maschi effeminati (o maschilisti, che è l’uguale al contrario) l’approccio maschile alla vita si sta perdendo. La sessualità è diventata una cosa elusivamente femminile: chi è che oggi prende la guida del rapporto sessuale e ne condiziona il godimento? Può, con i tempi che corrono, il maschio permettersi di prendere l’iniziativa di un casto toccamento? Per non parlare di uno spintone: se lo fa l’uomo è condannato per violenza, se lo fa la donna è per autodifesa.
Gli uomini sono in uno stato di soggezione. Se l’uomo ha soggezione ritornerà a sentirsi sempre figlio, non marito. Resta dipendente dalla mamma, poi dalle decisioni della moglie e poi dagli umori dei figli.
Nella soggezione, il rapporto di coppia non si gioca più fra due persone allo stesso livello e la stima reciproca viene meno.
Siccome, oggi, non si è più costretti a stare insieme per legge, senza stima si può stare insieme
per la casa (cioè per il possesso)
per i figli (cioè per la gloria di sé che si nasconde dietro a questo altruismo)
per il letto (cioè per gli istinti).
Ma la stima non c’è. Il collante diventa il bisogno: «non mi soddisfi più? Allora chiudo con te».
Non essendoci stima, alla prima incrinatura del legame nasce la competitività di coppia e con i figli, che nella sua radice è competitività fra i generi: maschio contro femmina. Senza stima, la fragilità di uno fa allontanare l’altro e la differenza diventa l’argomento per la separazione. Esaurito il legame al servizio dei propri bisogni (fine del possesso), di solito il maschio cerca l’evasione (ricupera l’istinto); la donna invece cerca l’amante finalmente affettuoso perché non cerca l’istinto, ma l’essere compresa (recupera la gloria) e quando l’amante lo intuisce si spaventa e si ritira.
Il consulente di coppia lo sa bene. La debolezza del maschio e la forza della donna sono in aumento, la rivalità fra i sessi pure, e nel momento della scintilla la lotta delle due identità di genere diventa sempre più furente. Oggi, nelle relazioni fra i sessi l’aggressività impera. Non solo e non tanto quella della moglie o del marito che uccide il partner. Ma quella secca, dagli occhi dolci e dalle mani gentili. Nelle istituzioni, poi, è evidente: un’aggressività che seduce, intriga, calamita, porta addirittura ad associarsi e a stabilire patti d’acciaio, ma che sempre aggressività è perché il nucleo dell’aggressività è la mancanza della stima per l’altro.
L’aggressività unisce più dell’amore. Quando non c’è stima, il rapporto di coppia non si gioca più fra due persone allo stesso livello; e quello fra genitori e figli non è più impostato sulle mutue obbligazioni. Il posto lasciato vuoto dalla stima, di solito, è preso dal mettere in soggezione l’altro e quando hai soggezione, resti dipendente. È la logica del possesso. Il maschio cerca (oggi, invano) di «tenere testa» alla femmina, la femmina (con miglior successo) «tiene in mano» il maschio, i figli tengono in soggezione entrambi. Nascono legami stretti, di fusione reciproca: dai genitori, dal partner, dai figli. Ma non essendoci stima, alla prima incrinatura nasce la competitività. La fragilità di uno fa allontanare l’altro. Le famiglie che non sono dentro a questa filigrana hanno problemi più risolvibili.