Leggendo gli indici


Editoriale
Tredimensioni 9(2012) 228-233



Ogni tre anni pubblichiamo l’indice tematico e generale degli articoli apparsi sulla rivista. E questo è l’anno della terza scadenza. Lo pubblichiamo non solo per ragioni editoriali ma anche perché pensiamo che da una seppur veloce scorsa degli argomenti trattati si possa cogliere la proposta culturale che la rivista intende perseguire. 


Fin dall’inizio, Tredimensioninon ha voluto essere una passerella di articoli vari sulla formazione, collegati fra loro solo dal tema in oggetto ma non da una proposta unitaria di impostazione teorica e di metodo. Siamo convinti che un buon formatore - come qualsiasi altro che opera con la persona umana - non è solo un buon operatore ma un buon pensatore (e viceversa). Senz’altro deve operare sul problema che si trova davanti e saperlo trattarlo nella sua singolarità e originalità, senza incasellarlo in moduli standard. Ma riteniamo anche che debba tener presente che davanti a sé non ha un problema ma una persona e, pertanto, che dovrà avere una visione globale di che cosa significhi essere persona umana e una consapevolezza del perché lui sceglie di operare in un modo piuttosto che in un altro. Tredimensionitratta questo o quel problema su cui il formatore opera, ma nel trattarlo vorrebbe trasmettere la cultura dell’operare formativo. Questo è anche il taglio che chiediamo di tener presente ai nostri autori collaboratori, con la disponibilità aggiuntiva a rivedere e a puntualizzare il testo che propongono alla luce dei suggerimenti della redazione.


La consapevolezza dell’operatore circa il proprio investimento personale è di natura culturale e non solo psicologica. È certamente importante che l’operatore sappia tenere sotto controllo la molteplicità di emozioni che l’incontro formativo gli suscita onde evitare rischi di manipolazioni e controtransfert dannosi. Ma auspichiamo anche che abbia una consapevolezza circa l’antropologia a cui egli si riferisce per capire il vissuto e circa il metodo che sceglie per operare sul vissuto, perché - a nostro parere - senza la consapevolezza della antropologia e del metodo andrebbe poco avanti. 

Il formatore non è paragonabile ad un etologo che osserva distaccato il lavoro delle formiche. Non è paragonabile ad un tecnico che ritira la vostra lavatrice vecchia e vi consegna la nuova spiegandovi il libretto di istruzione. Non è lo dispensatore di consigli pronti all’uso. 

Nelle problematiche di vita che la gente gli confida vede il mistero della vita che in esse si dipana e nell’aiutare la gente a vivere meglio quelle problematiche vorrebbe aiutarla a vivere meglio il mistero della vita. Si incontra dunque con i temi fondamentali del vivere: gioia, umiliazione, orgoglio, sconfitta, desiderio, distacchi, progetti, speranza…. Quando arriva a questo nucleo umano non può non chiedersi che idea lui si è fatto di tutta questa roba, che immagine interiore lo guida di persona umana, di vivere da umani, di realizzazione, dolore, successo, patologia… (consapevolezza della propria antropologia) e non può non chiedersi perché - qui e ora - sceglie di operare in un certo modo piuttosto che in un altro (consapevolezza del metodo). Ritenere che agire sull’uomo senza avere un’idea di uomo, in piena neutralità scientifica, é un mito che la prassi sconfessa. 


Passando in rassegna gli indici si vede che le tematiche trattate da Tredimensioni sono varie (si passa dalla esperienza mistica al tema della pedofilia, dal discernimento vocazionale al bambino in ospedale, dalle relazioni familiari ai ruoli istituzioni….). Ma si vede anche (speriamo!) che la rivista ha un suo modo di leggerle e di trattarle, che è comune e trasversale a queste tematiche. Un modo che ha una duplice radice: da una parte un visione antropologica molto esplicita nella sua formulazione teorica e fondata – almeno per propensione intenzionale e per sforzo di apertura dialogica – su basi interdisciplinari nel solco dell’Istituto di Psicologia della Pontificia Università Gregoriana di Roma, e dall’altra un metodo operativo che l’Istituto Superiore per Formatori - di cui la rivista è espressione - porta avanti dal 1977 ad oggi. 


Le problematiche cambiano velocemente. Il modo di affrontarle un po’ meno. Per questa ragione abbiamo pensato di pubblicare gli indici di tutta la rivista, a partire dalla sua nascita (2004), e non solo quelli relativi agli ultimi tre anni. Non pretendiamo, con questo, dire che i nostri articoli sono immortali. Vogliamo solo dire che il ventaglio dei problemi cambia velocemente ma il modo di affrontarli un po’ meno. Ad esempio, l’adolescente di oggi è abbastanza diverso da quello di 1 anno fa. Eppure c’è qualcosa che rimane. Dietro a problemi che cambiano, ci sono appuntamenti di vita che ritornano perché appartengono allo spiegarsi stesso dell’esistenza al di là dell’anno in corso. I vestiti cambiano con la stagione ma le domande di fondo di chi li indossa non altrettanto: chi sono io? Chi sono gli altri per me? Come faccio a sapere se sono degno? Vale la pena crescere o è meglio tentare di restare come si è?... Lo slogan che dice «oggi la gente è diversa da quella di un tempo» non è del tutto vero. C’è qualcosa di trans-situazionale che resta. Così è per gli interventi pedagogici. A parte quelli da pronto-soccorso che cambiano da stagione a stagione, gli interventi che raggiungono le corde di fondo del cuore umano non variano così repentinamente. Una conferma di ciò è l’utilizzo della nostra rivista anche in altre nazioni, seppure abbiano problematiche educative diverse da quelle italiane. 


La rivista ha una sua proposta interpretativa della realtà, ma non vuole essere di parte. Ha un suo indirizzo culturale ma non è nata per propagandarlo, tanto è vero che quasi la maggioranza degli autori è esterna a tale indirizzo. A nessuno di loro chiediamo il tesserino della nostra lobby perché lobby non siamo e non replichiamo a chi ci considera una lobby. Agli autori (sia del versante psicologico/pedagogico che teologico/filosofico) chiediamo soltanto che siano anch’essi pensatori dell’esistenza, che abbiano messo a prova la concretezza della loro teoria confrontandola con la prassi e che abbiano un modus operandis e cogitandische non riduca il fenomeno umano ad un fenomeno solamente psichico o, all’opposto, solamente spirituale. L’uomo vivente non è l’uomo della psicologia, come non è l’uomo della filosofia né della teologia. Non è l’uomo descritto dall’ultimo libro uscito in libreria e… neanche l’uomo come lo pensa Tredimensioni. L’uomo e la donna viventi sono l’insieme di tutto questo e anche di più, e più che mettere in gara le teorie è preferibile farle interagire per vedere se possiamo capire meglio l’uomo e la donna esistenti. 


Ognuno di noi funziona a livelli diversi, anche contraddittori e con ritmi e tempi di sviluppo diversificati. Eppure sono livelli che si intrecciano in un unico funzionamento di fondo e lo stesso linguaggio comune ci suggerisce di farci un’idea di come complessivamente la persona «gira». Se una teoria vale per spiegare un certo livello di funzionamento, quella non necessariamente vale per spiegare altri livelli. È dunque inutile spingere l’uomo esistente dentro alle caselle di una o dell’altra scuola di pensiero. Meglio sarebbe aprirsi alle diverse scuole e servirsi dell’una o dell’altra a seconda del livello sul quale si sta operando e che una ma non l’altra si è specializzata nell’analizzarlo. Non a caso la rivista si chiama Tredimensionie porta il sottotitolo psicologia, formazione e spiritualità. La competizione fra le teorie per guadagnarsi il primato rivela la debolezza del teorico più che la scientificità della sua ricerca. 


La ormai annosa questione se è meglio credere alla psicologia o alla grazia, alle scienze «umane» o a quelle «sacre» sta diventando noiosa. Sta diventando come la favola di Biancaneve: «specchio delle mie brame: dimmi, chi è la più bella del reame?». Nel recente passato la diatriba era servita per chiarire le rispettive competenze e autonomie. Oggi sembra una corsa al primato più che un invito al confronto e all’incontro. 

Nonostante le affermazioni di principio che dicono che ormai ci siamo lasciati alle spalle gli anni della resistenza e della lotta e siamo nell’era della integrazione, dal nostro osservatorio non risulta esattamente così. Ci sembra più un’era di educata indifferenza reciproca: visto che tutto sommato si può convivere, allora viviamo da separati in casa. Teologia, filosofia, spiritualità da una parte e psicologia dall’altra si omaggiano a vicenda, nelle pubblicazioni si citano anche, si invitano reciprocamente ai convegni, ma ognuna rimane nelle sue posizioni di partenza e fa fatica a ripensarle tenendo conto dell’altra. 

È una fatica comprensibile perché è un’impresa non facile intrecciare lo studio della oggettività (ossia del contenuto cristiano, per di più rivelato) con lo studio della soggettività (ossia del funzionamento dei soggetti esistenti). Ma alla fatica (forse mai superabile) si aggiunge - ci sembra - anche una certa resistenza. C’è resistenza da parte della psicologia che, nonostante i passi da gigante fatti, vede sempre con un certo sospetto il riferimento all’oggettivo e teme che l’inglobare nella sua riflessione e cura terapeutica anche la dimensione spirituale per di più su base di Rivelazione sia un abuso che stride con la sua scientificità. C’è resistenza da parte della teologia che si sente infastidita quando la psicologia le chiede se dopo aver analizzato un messaggio, può anche indicare come quel messaggio può essere mediato per raggiungere il cuore della gente, ma con mediazioni teologiche, intrinseche al messaggio stesso che per natura sua ha una forza pedagogica, e non con sussidi pronti all’uso ad opera di praticanti. 

A noi psicologi questa ritrosia della teologia fa dispiacere perché lascia a noi la riflessione sulla pratica mentre vediamo lei ritirarsi nella teoria. Il posto dell’operare pratico ce lo prendiamo volentieri ma ci sembra che anche la teologia abbia qualcosa da dire in proposito e che formare le coscienze (anche da un punto di vista solo umano) non sia solo un mestiere per gli psicologi. Partire dalla pratica o almeno tener conto dell’uomo esistente non vale anche per la teologia? «Morale» o «spirituale» è solo un tipo di azione opposta ad un’altra, o è la dimensione di valore di ogni azione in quanto considerata nel suo rapporto con la totalità soggettiva dell’agente? Ci sembra che gli interventi teologici apparsi in Tredimensionidiano delle risposte. 


Una veloce scorsa degli indici fa cogliere un’altra nostra convinzione di fondo. Nel campo della formazione (e pure della evangelizzazione) è fallimentare il puntare sulla riproposizione di valori senza sapere valutare se le condizioni dell’esperienza in atto sono tali da rendere tali valori comprensibili, interessanti ed appropriabili. Ci sembra che questo modo di proporre i valori contenga un fondamentale intellettualismo: il valore è affermato nella sua originaria evidenza, ma al di fuori di una logica di domanda e risposta, cioè di pertinenza del valore alla struttura antropologica. I valori possono anche essere intellettualmente capiti e forse anche emozionalmente intuiti, ma perché dovrebbero muovere e vincolare l’agire umano? Perché dovrebbero determinare praticamente e stabilmente il vissuto? Per l’uomo contemporaneo non è più convincente la vecchia risposta metafisica secondo la quale occorre rispettare i valori perché c’è una prestabilita consonanza metafisica di tipo platonico della psiche/spirito con il mondo trascendente dei valori, da cui dedurre la necessità di connessione fra esperienza e valori. Per convincere l’uomo contemporaneo bisogna partire da dove lui è.