Il facile alibi della malattia mentale
Editoriale
Tredimensioni 8(2011) 116-122
Tra i circa seicento omicidi volontari che avvengono ogni anno in Italia, molti passano inosservati. Ma alcuni invadono (eccessivamente) i mass media. Di solito sono quelli che riguardano le relazioni amorose o hanno per vittime i minori e le donne.
Facciamo fatica a pensare che a compiere il male estremo siano persone «normali». Ci è difficile, credere e accettare che soggetti capaci di intendere e di volere possano operare con determinazione e deliberazione omicidi efferati. Costruiamo noi e vogliamo che gli «esperti» costruiscano il mito che chi ha ucciso o ucciderà nel prossimo futuro soffre di un grave disturbo psichico. Presupposto culturale rassicurante, ma del tutto da dimostrare.
Secondo l'ultimo rapporto Eures-Ansa (2009) sull'omicidio volontario in Italia, in questo decennio vi è stato un incremento significativo delle vittime di sesso femminile, nonostante rimangano gli uomini i destinatari privilegiati di atti delittuosi. Le donne più colpite sono le anziane, ma il rischio è alto anche per le giovani dai 25 ai 34 anni. Il dato preoccupante è che molte uccisioni avvengono nel contesto familiare e all'interno dei rapporti di coppia (nel 2008, dei 601 casi di omicidio, 171 si sono verificati in famiglia). Il movente prevalente è quello passionale (26,3%). Ma si uccide anche per interesse-denaro (23,4%), per conflitti quotidiani (11,7%), per raptus (11,7%) e per disturbi psichici (8,8%). Va aumentando il numero delle donne assassinate a seguito della decisione di rompere la relazione con il partner. Questi delitti in famiglia si distribuiscono in maniera sostanzialmente equa tra grandi e piccoli comuni, ma con più frequenza al nord. Molti terminano anche con il suicidio del responsabile. Ogni dieci giorni un uomo (93%), marito o padre, pianifica il proprio «suicidio allargato», decidendo di trascinare con sé la compagna o la coniuge (53%), uno o più figli (19%). Insomma, le sicure mura domestiche di una volta sono diventate una minaccia. Ai nostri giorni, la famiglia «uccide» più della malavita organizzata e della criminalità comune.
Tutti più o meno folli? Altri numeri si potrebbero aggiungere, ma questi bastano per archiviare anche la versione modernizzata della vecchia tesi di Cesare Lombroso secondo cui chi ha ucciso, per il solo fatto di aver ucciso, è folle. Il ricorso automatico al «matto» o al «mostro» poteva valere fino alla fine degli anni '80. Ma, adesso, i numeri parlano chiaro: chiunque potrebbe rendersi protagonista di un atto di violenza estrema. I delitti, perfino quelli più crudeli, possono avvenire in situazioni e ambienti di ordinaria quotidianità. Addirittura gli omicidi seriali sono compatibili con personalità che hanno caratteristiche lontane dalla cosiddetta follia.
Ma ecco pronta la formula magica alternativa: incapacità di intendere (difetto di intelligenza) e di volere (difetto di volontà), semmai nel solo momento di uccidere, come il blackoutmomentaneo della corrente elettrica.
Peccato che questo importante criterio valutativo di perizie e sentenze giudiziarie, non corrisponda tout courtad alcuna delle categorie psichiatriche conosciute, dunque alla malattia della mente. Uno schizofrenico, ad esempio, non vive in uno stato di perenne incapacità di intendere e volere tanto da non poter essere in grado di commettere un omicidio in un lampo di piena consapevolezza. D'altro canto, anche la persona normale può agire senza saper prevedere le conseguenze delle sue azioni estreme o senza la forza di saperle dirigere o arginare. L'inabilità dell'intelligenza e della volontà non discrimina necessariamente tra malattia della mente e normalità. Forse è proprio questo che ci angoscia e, a dispetto dei numeri, continuiamo ad identificare il male estremo, la violenza e l'assassinio con la malattia della mente, quale capro espiatorio di una realtà dura da digerire.
Una volta trovati i matti (pardon! In TV si dice: «personalità complesse»), quelli sono sempre gli altri, di un'altra categoria. E così, con la distinzione tra «noi» e «loro», portiamo avanti in forma aggiornata la vecchia mentalità manicomiale che emargina. E a tutti i «diversi» attribuiamo le stesse caratteristiche attribuite al loro gruppo, per cui ci appaiono fra loro più simili di quanto lo siano in realtà: dal crimine di oggi passiamo ad aggiornarci su quello di ieri e poi ritorniamo a quello di oggi, li paragoniamo, mischiamo, confondiamo…
Ma noi non c'entriamo mai, non abbiamo niente da criticarci, quando invece sappiamo benissimo che i fenomeni di cattiveria e di aggressività – anche estrema – esprimono un disagio collettivo che non ci risparmia e che vede in gioco l'intreccio di diversi fattori. Di fronte a questi fatti non diciamo, ad esempio, che sarebbe ora di accorgersi che i progetti educativi per i ragazzi e le famiglie in auge ormai da più di un decennio vanno sicuramente rivisti, risignificati e riformulati. Non diciamo, per esempio, che quando si dimenticano o si negano di proposito i valori e i significati – anche i più basilari per una civile convivenza – l'esplosione degli impulsi prende il sopravvento sul contenimento delle pulsioni e sul loro orientamento. Non diciamo, ad esempio, che la gazzarra quotidiana dei politici in TV è altrettanta inaudita violenza… O se lo diciamo, è a mo' di lacrime di coccodrillo, di affermazione pia, patetica o da talk-show, senza nessuna risonanza pratica e incapace di inchiodare chicchessia alle sue responsabilità. Perché il presupposto implicito è sempre quello: sono gli altri i matti, quelli che non sanno cosa significhi intendere e volere. Sono loro da curare, quindi si possono, a poco prezzo, fare anche discorsi di rinnovamento collettivo perché – è implicito – a rinnovarsi dovranno essere gli altri. La solita storia: siamo tutti pronti ad aprire la bocca, ma altrettanto lesti a chiuderla quando il dire comporta il ripensamento dei nostrimodi di vivere.
Insomma, invocare spesso e volentieri la psicopatologia come estrema ratioper l'interpretazione di comportamenti illogici, irrazionali, violenti e incomprensibili è operazione poco rispettosa della verità, quindi assai pericolosa. Ed è anche un cattivo servizio a chi soffre davvero di un serio disturbo psichico, perché si sovraccarica il suo disturbo con lo spauracchio di essere una minaccia potenziale all'integrità sociale.
Il disinvolto ricorso alla debolezza psichica può – ahinoi! – servire anche per spiegare, se non addirittura giustificare, i fallimenti di natura vocazionale. Non di rado fa proprio così, per esempio, un parroco o un operatore familiare cattolico quando una coppia in crisi incomincia a valutare l'ipotesi dell'annullamento del loro vincolo: la prima ragione che viene in mente è la debolezza psicologica capace – secondo questo mito – di aver impedito ai due di porre in atto una decisione libera e responsabile. Ne abbiamo parlato proprio nel numero scorso della rivista. Il ricorso all'argomento della debolezza psichica può rappresentare la ricerca di un vero e proprio alibi alla cattiva volontà o alla fragilità del volere. In ultima analisi, banalizzare in questo modo la debolezza psichica, facendola passare per impedimento di normalità, significa in fondo cadere in quel determinismo che riduce la libertà e responsabilità a pura causalità lineare, quella che dice: là dove c'è debolezza psichica, non c'è più libertà e responsabilità.
Da parecchio tempo Benedetto XVI va manifestando una certa preoccupazione (già per altro manifestata anche da Giovanni Paolo II) a proposito del «moltiplicarsi esagerato e quasi automatico delle dichiarazioni di nullità, in caso di fallimento del matrimonio, sotto il pretesto di una qualche immaturità o debolezza psichica del contraente». È con queste parole che, nel corso dell'udienza del 29 gennaio 2009, si rivolge ai membri del Tribunale Apostolico della Rota Romana. Esattamente un anno dopo, sempre nell'occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, il Papa raccomanda agli operatori del diritto di non contrapporre mai giustizia e carità alla verità, quasi che le prime dovessero escludere la seconda. Lo fa perché, mossi dal desiderio di venire incontro a coloro che si trovano in situazioni matrimoniali difficili, potremmo incorrere nel rischio della strumentalizzazione della verità, adattandola alle diverse esigenze delle persone. In realtà, giustizia e carità postulano l'amore per la verità e comportano la ricerca del vero.
«Difficoltà» e «incapacità» sono due cose ben diverse. Solo quest'ultima, sostiene il Papa, ha il potere di rendere nullo il matrimonio. Una vera incapacità si può ipotizzare solo nel caso di una seria forma di anomalia che, presente già al tempo del matrimonio, intacca sostanzialmente la capacità del soggetto di intendere e/o volere, provocando in lui non solo una grave difficoltà, ma anche l'impossibilità di far fronte ai compiti inerenti agli obblighi essenziali del matrimonio. Pertanto, non si può confondere la «difficoltà reale» in cui gli sposi si trovano con la «vera incapacità» consensuale.
Anche nell'ultimo discorso alla Rota Romana (22 gennaio 2011) il papa ricorda che non si possono confondere le mancanze con i difetti di consenso e la validità con il grado di saggezza pratica. La validità del matrimonio dipende dalla capacità di contrarre il vincolo matrimoniale, non dal comportamento successivodei coniugi o dalla situazione che si viene a creare in seguitoal matrimonio stesso. Questa capacità deve essere misurata in rapporto all'effettiva volontà dei singoli contraenti al momento del patto nuziale. In gioco vi è qui l'esercizio della libertà umana. Infatti, l'immaturità psichica, motivo di nullità, comprende le cause che compromettono, in uno dei due coniugi, la capacità consensuale di assumere e adempiere i fondamentali obblighi del matrimonio. Tra queste vi è non solo la mancanza di un sufficiente uso di ragione da parte di un soggetto che, per una grave alterazione delle facoltà psichiche, non è in grado di autodeterminarsi in maniera cosciente e libera, ma anche il cosiddetto difetto di discrezione di giudizio.
Secondo il Papa (nel discorso più sopra citato del 2009), gli addetti ai lavori dovrebbero saper discernere tra la «capacità minima, sufficiente per un valido consenso, e la capacità idealizzata di una piena maturità in ordine ad una vita coniugale felice». Pertanto, nel caso di una supposta nullità per incapacità psichica, per arrivare ad accertare con verità nelle persone l'esistenza di una vera inabilità a comprendere, decidere e realizzare la donazione di sé, prerogativa essenziale per la validità del vincolo coniugale, il giudice dovrà avvalersi del supporto di una perizia specialistica.
Il perito incaricato dovrà considerare che l'accezione canonistica del concetto di normalità comprende alcune moderate forme di psicopatologia. Per questo, è nostra opinione che, ai fini di una psico-diagnosi, la valutazione dello psichiatra o dello psicologo di turno non si limiti al solo approccio descrittivo (secondo il cosiddetto DSM), né al solo approccio psicodinamico, seppure entrambi indispensabili, ma preveda un'accurata «analisi strutturale» della personalità. È solo così, infatti, che la perizia sarà alla fine davvero utile al giudice per stabilire il gradod'incidenza della psicopatologia sull'intelligenza e sulla volontà del soggetto in questione.
Come contrastare il facile alibi della malattia mentale, nei due ambiti qui accennati, ma anche in altri? Come evitare di confondere difficoltà con incapacità?
Senza pretesa di facili soluzioni, ma con la certezza che è un apporto utile, la nostra rivista – in quanto espressione di una specifica antropologia psicologica: quella dell'Istituto Superiore per Formatori e, in un'ultima analisi, dell'Istituto di Psicologia della Università Gregoriana – studia il sistema motivazionale della persona umana come frutto della co-presenza d'intenzionalità conscia e inconscia, di desiderio emotivo e razionale, di bisogni e di valori, di cause e motivi.
Particolarmente confacente al nostro tema, è lo studio della motivazione umana secondo le tre dimensioni che la compongono. Nella prima dimensione il soggetto è cosciente delle forze che motivano il suo comportamento, che sono quelle riguardanti il suo Io ideale (cioè l'insieme dei valori che intende perseguire) e il suo Io attuale conscio (cioè l'insieme delle sue risorse psichiche delle quali è consapevole). Essendo una dimensione che si gioca sugli elementi consci della motivazione, essa può essere valutata in termini di bene o male, di virtù o peccato. In questa dimensione, più che nelle altre due, la persona esercita la libertà tanto per l'adesione ad un impegno, quanto per il suo rifiuto consapevole. La terza dimensione considera gli aspetti motivazionali inconsci, cioè l'influenza sul progetto ideale – fino a distorcerlo – degli elementi dell'Io attuale di cui l'interessato non ha la consapevolezza, per cui – in questa dimensione – si usano le categorie valutative della normalità e della patologia. Nella seconda dimensione, invece, (quella di solito dimenticata nella valutazione psicodiagnostica), sono attive forze consce e inconsce, ma in una relazione tale che la persona può proclamare e volere valori autentici, ma nello stesso tempo essere spinta da altre motivazioni inconsce che vi si oppongono senza peròarrivare ad annullare la validità e fattibilità del progetto valoriale. Rispetto alla prima e alla terza dimensione, qui l'individuo è, di fatto, più limitato(ma non impedito) nella sua libertà e responsabilità, nel senso che, pur essendo attratto dal bene reale, nel suo agire può essere guidato anche dalla ricerca di quello apparente. È proprio la considerazione di questa seconda dimensione che può scalzare il mito e l'alibi della malattia mentale.
Grazie a questa comprensione tridimensionale e più analitica della motivazione umana, è possibile individuare, al di là dei due estremi di libertà-non libertà, responsabilità-non responsabilità, normalità-patologia il più ampio spettro intermedio dei diversi gradi di libertà e responsabilità e, quindi, sconfessare il disinvolto ricorso alla debolezza psichica per liquidare la capacità di gestire i progetti di vita o per spiegare l'efferatezza umana.
Ora, se si escludono alcuni e ben definiti casi di grave psicopatologia, la persona mantiene la propria libertà essenziale. Semmai, verrà ristretta la sua libertà effettiva, man mano che la motivazione si spinge dalla prevalenza della prima dimensione alla preminenza della terza. La persona, cioè, mantiene la capacità di autodeterminarsi per il bene (o per il male), la sua facoltà di intendere, comprendere, riflettere, decidere e compiere una determinata azione. Semmai, la userà con più difficoltà, in modo più circoscritto o limitato. Ma questo è diverso dal dire che è impedita, perché – poverina – gambizzata dalla vita.