Poveri padri


Editoriale
Tredimensioni 11(2014) 1



Gli ultimi anni hanno visto un crescendo di libri e di consenso unanime sull’assenza dei padri. La denuncia della loro assenza è diventata una sorta di mantra che si ripropone ciclicamente e che spiegherebbe alcune patologie del nostro tempo. Il cambiamento rispetto ai tempi di Freud consisterebbe nel fatto che il conflitto edipico ha perso la sua centralità: non siamo più in un tempo di ribellione verso i padri, perché i padri se la sono già data a gambe ancora prima dell’uscita dall’infanzia dei loro figli. Quando il bambino incomincia a parlare, il suo interlocutore è soltanto la mamma (o la nonna) perché il padre è già evaporato. E i pochi padri che decidono di restare assumerebbero una sorta di funzione materna, che sarebbe un’abdicazione al proprio ruolo di terzo incomodo nella relazione simbiotica tra madre e figlio. Il padre non taglia più il cordone ombelicale tra mamma e figlio, anzi diventa connivente della sua permanenza.

E allora, ecco la nostalgia per il padre, semmai un padre un po’ forte, sicuro di sé e senza incertezza nel dare le formule vincenti per il futuro, quando - morto lui - i figli ripeteranno ciò che ha fatto lui. Ma di che padre si tratta: del pater familiasche sprona e incita i figli o del nume tutelare che protegge il loro sonno?

  

In chiesa

Le cose in realtà non funzionano tanto diversamente all’interno della chiesa. Da più parti si levano preghiere e lamenti perché non esiste più la paternità nella chiesa. I vescovi - si dice - non sono paterni come una volta. Chissà se lo siano stati davvero, ma oggi il presbiterio fa fatica a considerarli loro confidenti. Se, poi, uno vuole trovare un padre spirituale competente è come andare a cercare un ago in un pagliaio. Anche i padri di famiglia non riescono più a farsi ascoltare dai figli adolescenti, che chini sui loro smartphonesembrano diventare sordi a qualunque raccomandazione; se proprio non ci rinunciano, si rivolgono sconsolati agli educatori parrocchiali: «Diglielo tu, che sei più giovane di me, di non vestirsi in quel modo... che non può tornare a casa alle 2 del mattino… che quest’estate non può andare per conto suo al mare…». 

Già, non ci sono più i padri di una volta! E a questo punto scatta l’attesa messianica. Si aspetta un uomo (ma ci si accontenta anche di una commissione di saggi) su cui investire le nostre aspettative fantasiose. Un uomo dalla conoscenza profonda dell’animo umano, dell’economia, della pastorale… Un uomo che ci prepari le strade del nostro futuro, così da non incorrere in possibili errori. Se c’è, gli promettiamo voti, applausi e commozioni al suo apparire. Basta, però, che faccia lui. Noi lo seguiamo da figli moderni, cioè aspettiamo. Lo amiamo da figli, sempre da figli, di un paladino solitario in grado di debellare il maligno che si insinua in ogni piccola piega, mentre noi stiamo in attesa che ritorni al nido per darci il frutto dei suoi rischi.

A dire il vero, nel post-concilio, di padri, di fondatori di congregazioni, di iniziatori di movimenti… ne abbiamo anche avuti ma… dagli esiti un po’ incerti, non solo per problemi di soldi, potere, sesso ma anche perché i loro figli stentano a staccare il cordone ombelicale. 

  

Figli nostalgici

Ma è proprio del ritorno del padre che abbiamo bisogno? O forse, è di figli diventati adulti che abbiamo bisogno?

A proporre il ritorno del padre sono quei figli che non vogliono diventare grandi e aspettano che torni papà. Sono figli che restano eternamente tali, corrucciati perché ingiustamente abbandonati. I figli diventati adulti (nella psiche ma anche nella fede) non aspettano un ritorno del padre, se non quello escatologico. Tocca a loro fare ciò che non è stato fatto da un padre che non c’è più. Se i figli sono diventati adulti, lui può dormire in pace, bravo o cattivo che sia stato. 

Anzi, è meglio che non ritorni più perché, con un tale bagaglio di aspettative su di lui e nella sua inevitabile incapacità di realizzarle tutte, non gli resterà che prendere le distanze: rifugiarsi nei tagli di nastri, circondarsi di collaboratori che oculatamente gli ovattino la realtà, piacere anziché servire, fare la gimcana intorno ai problemi, perdersi nel flusso delle parole. 

Aspettiamo dei padri e rischiano di ritornare dei loro sosia. L’Ulisse moderno non arriva ad attraccare alla sua amata Itaca e preferisce la navigazione in mare aperto. Sente che le aspettative sono sproporzionate, che i proci hanno invaso la sua isola e che l’ordine non ritornerà se non dopo una guerra sanguinosa che lui non può o non si sente di intraprendere. Preferisce circumnavigare la sua isola così da lontano da non poter distinguere i problemi che la popolano e pare il comandante che fa il suo inchino all’isola e che scambia gli incendi devastanti per falò che rispondono al suo saluto.

  

Deposito o eredità?

I due simboli sono ugualmente presenti nel Nuovo Testamento e perciò vanno conservati entrambi, anche se si presentano antitetici. 

Il deposito è qualcosa che va conservato, protetto e salvaguardato. Si concentra sul contenuto, suggerisce immutabilità e conservazione e il legame del trasmettitore in favore del ricevente sta nel deposito stesso. Il concetto di eredità, invece, si situa in un altro orizzonte: implica uno stile di vita che, attraverso il contenuto, viene trasmesso da uno che è venuto meno e l’efficacia del testamento inizia quando il padre non c’è più. L’erede conosce la perdita, riceve dal padre perché è rimasto orfano e riceve qualcosa che sta a lui tener vivo. Il deposito rischia di conservare una casa dove nessuno vive più; l’eredità la rinnova e in essa anche il padre troverà il suo giusto posto.

Dire che abbiamo ricevuto una eredità dai nostri padri significa riconoscere che loro non ci sono più e che ora tocca a noi farla fruttare. Del resto il padrone dei talenti se n’è andato e chiede a noi di farli fruttare. Il Vangelo implica un passaggio di mano che è consegna ma anche perdita. Non ci si può dimenticare di questo se si vuole essere in grado di cogliere la dinamica intrinseca del Vangelo, che non è reliquia da conservare, ma patrimonio che come il talento va impiegato se deve portare frutto, pena la sua perdita. L’immagine la usa anche san Paolo, quando parla del Regno, tolto dalle mani di Israele e consegnato a nuovi figli. 

La tentazione del rimpianto cresce in proporzione con l’età e sono invidiabili gli anziani che vedono nell’oggi i segni di una vita che prosegue. Ma curiosamente, oggi, chi rimpiange i riti gregoriani non è il novantenne: questi infatti riconosce quanto sia bello andare a Messa e finalmente poter capire le letture e le preghiere; è invece il giovane a rimpiangere qualcosa che non ha conosciuto e che confonde il sogno con ciò che allora avveniva. Giovani che non sanno diventare adulti e che vivono un’attesa nostalgica del ritorno di ciò che non può ritornare e che forse mai fu. Del resto su un padre immaginato si possono proiettare i propri sogni e magicamente pensare che lui può realizzare quello che invece compete a noi; un padre immaginato risponde assai di più alla proiezione magica di quanto non faccia un padre reale. C’è da dubitare che i celebranti delle messe in latino rimpiangano come belli i tempi nei quali si andava parroci ricevendo una lettera portata dal postino del paese e non si batteva ciglio; la messa la si dice volentieri in latino, ma la vita dura dei preti d’allora chi la fa più? 

 

Tempo di creatività

Sarà anche vero che i padri oggi sono evaporati: ma se è vero quello che diceva Freud di Leonardo (che cioè il suo genio era figlio proprio dell’assenza di suo padre), allora questo tempo dell’assenza dei padri è l’occasione per la creatività dei figli. Il vangelo ha bisogno di una novità di attualizzazione per l’oggi, non può restare lettera morta o riposizionarsi sul passato. È questo il tempo di figli che smettono di stare voltati indietro e accettano con coraggio di diventare adulti; è questo il tempo di azzardare il vangelo per un oggi che non si può rimandare. Il talento non frutta se non è trafficato e chi non lo investe è condannato dal Signore.

Secondo Gesù, i padri morti non sono neppure da seppellire. Occorre vivere il kairòs: il tempo di grazia, che è sempre oggi e mai ieri. Invece, se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa sceglierebbero il ritorno del padre. Finché i cristiani attendono un Vescovo, un parroco, un Papa, una comunità, un presbiterio che ridia coraggio e speranza, restano dei bambini che non potranno mai educare nuove generazioni o addirittura estingueranno la discendenza. Meglio concretizzare oggi, senza aspettare il padre giusto. L’obbedienza è una cosa e tutelare il proprio infantilismo un’altra. 

 

Però magari anche i padri…

Ma se un padre lo troviamo, non lo buttiamo via. A patto che non ci tenga perenni adolescenti. 

Un padre che sidia un limite. Un padre che accetti che c’è ancora da imparare e che non esiga di essere solo ascoltato. Quel padre che vuole che il figlio gli parli deve perdere il potere di detenere l’ultima parola e astenersi dal riempire il silenzio con le sue parole. Forse c’è bisogno di un Vescovo che ascolti e che discerna insieme, che sappia dire una parola ultima solo dopo aver ascoltato e che a volte si trattenga pure dal dire l’ultima. Esperienza frustrante quella del presbitero (o di una Chiesa) che si trova davanti ad un Vescovo sordo ma che tanto parla.