Il mondo che non c'è


Editoriale
Tredimensioni 12(2015) 1



In paesi fortemente industrializzati, con una sovrabbondanza sul mercato di prodotti in competizione, una chiave di volta della concorrenza e dell’economia è l’abilità di indurre all’acquisto di un nuovo prodotto. Per farlo, i pubblicitari collegano magicamente il prodotto reclamizzato ai sogni e alle paure del soggetto, secondo uno schema abbastanza ricorrente: la tua situazione attuale è pessima o volta a peggiorare: sei in pericolo → puoi migliorarla e proteggerti dal pericolo → e ciò è garantito dall’acquisto del prodotto X.

Così, ci sentiamo dire che le strade sono pericolose ma quest’auto può proteggerti, il mondo è pieno di ladri ma questa porta è blindata, la concorrenza è spietata ma questo software ti rende più competitivo, il cibo è pieno di tossine ma quello che ti propongo io è certificato, il tuo vestito è fuori moda ma quest’altro ti rende attraente, l’Italia è a pezzi ma il mio partito può salvarla, il tempo passa ma la crema antirughe lo ferma.

Questo tipo di messaggio si regge su una visione scissa del mondo: il mondo in cui vivi è ostile e pericoloso, la felicità sta da un’altra parte. Altrove.

Altrove. Ma dove? Nel prodotto che acquisti? No, perché l’acquirente impara velocemente a non fidarsi troppo del prodotto acquistato, impara velocemente che non lo renderà veramente felice, che il prodotto si deprezza appena uscito dal negozio e presto diventerà un problemarifiuto da cui liberarsi. Impara velocemente che anche dell’altrove promesso non c’è da fidarsi. La visione scissa del mondo lascia, alla fine, senza nessun mondo. 

 

La Chiesa con molte iniziative cerca di vivere e trasmettere valori importanti, ma alle volte ripetendo lo stesso schema della scissione: «lo sport non è più un ambiente sano, ma se vieni in oratorio a giocare ti diverti», «voi genitori non sapete educare alla fede, ma se mandate i bimbi a catechismo li prepariamo noi ai sacramenti», «la politica è piena di corruzione e arrivismo ma se vieni a fare volontariato in parrocchia trovi un ambiente differente», «il mondo è schiavo del male ma se vieni nel nostro gruppo di preghiera ne sarai immune»… 

Con questa impostazione, gli ambienti ecclesiali si pongono come alternativi al vivere sociale, ma in modo da confermare (e a volte rinforzare) quel modo di pensare e sentire per opposizioni descritto sopra. Non bisognerà allora stupirsi nel trovare, ad esempio, bravi catechisti che sul lavoro violano abitualmente le leggi dello stato. Come non bisognerà stupirsi che le persone già disincantate dalla vita non si lasceranno attrarre da un ambiente che si propone troppo (il solo?) positivo rispetto a tutti gli altri. E neanche stupirsi se i nostri bravi ragazzi di parrocchia sono come gli altri quando si tratta di gestire denaro, carriera, potere. 

 

E che cosa succede quando si incomincia a percepire che anche negli ambienti «protetti»ci sono problemi e difficoltà.

Il sistema economico sfrutta questa nuova consapevolezza per aumentare la sua corsa produttiva: «se nonostante il tuo impegno sei ancora fuori dal mondo ideale è proprio vero che hai bisogno della nostra consulenza», «se il tuo computer è divenuto un ingombro posso offrirti un servizio di smaltimento rapido»... L’effetto è che il soggetto inizia una corsa che lo porta verso nuovi acquisti, forse non più nell’illusione di acchiappare quello giusto che lo introduca nel mondo ideale ma «semplicemente per rimanere allo stesso posto, a debita distanza dalla pattumiera dove altri sono destinati a finire» (Z. Barman). 

Negli ambienti ecclesiali si usa una variante tutta particolare: davanti alle ambivalenze della vita e degli stessi ambienti ecclesiali si ricorda alla persona il suo impegno a convertirsi. Il che è del tutto evangelico, ma il problema è intendersi su cosa significa convertirsi perché questo appello potrebbe avere l’effetto di perpetuare la scissione fra mondo reale peccaminoso e mondo ideale che non c’è, con un reciproco squalificarsi. Quando è così, convertirsi significa vomitare sul mondo reale capace soltanto di ricordare continuamente al soggetto che lui è ancora lontano da quella felicità ideale che ricerca e di fronte alla quale ogni nuova esperienza, ogni nuovo ambiente e infine anche il soggetto stesso non possono che apparire troppo poveri e quindi inaccettabili.

 

La conversione non significa traslocare nel mondo dei valori ma un nuovo modo di restare nell’unico mondo reale che c’è. 

La concretezza storica di Gesù riconosciuto come vero uomo e vero Dio impedisce di ridurre la sua persona ad un ideale irenico di pace, solidarietà e felicità… ma richiama la necessità di incontrarlo attraverso la mediazione di avvenimenti e persone concrete. Una mediazione storica, dunque, è imprescindibile sebbene, come ogni mediazione, rimandi oltre se stessa. Inoltre, l’evento di grazia della sua venuta non può essere tradotto con «convertiti e sarai vaccinato»,ma piuttosto «quando eravamo peccatori egli morì per noi». È proprio questa sua presenza nella nostra storia di peccatori che definisce la parola conversione: la presenza di Cristo, della grazia, e quindi di tutti i valori che cercano di esprimerla in una pluralità di parole, non va ricercata in un mondo ideale che cerchiamo di raggiungere senza mai riuscirvi, ma piuttosto nel mondo reale già pre-esistente alla conversione. Nella misura in cui una persona riconosce nella propria vita attuale e nella propria storia la presenza di Cristo, attraverso qualche mediazione concreta, essa si affida a questa presenza e la lascia crescere fino a farla divenire la guida della propria vita. Per questo tipo di conversione l’esortazione non basta, ci vuole la presenza di una persona amica. 

Se intendiamo i valori come descrizioni di un mondo che non c’è e a cui soltanto aneliamo, dobbiamo dire che Cristo non è per niente un valore. Anzi, è legittimo chiedersi se valori siffatti, più che essere la mediazione del divino, siano la mediazione di un idolo, in quanto hanno l’effetto di condannare la vita presente e di renderla schiava delle loro pretese.

Il Figlio di Dio ha condiviso la condizione umana in tutti i suoi aspetti, tranne che nel peccato, di cui però si è fatto carico per noi.

Quando presentiamo un Dio che non aiuta a trovare la sua presenza nella condizione umana ma si pone in alternativa ad essa, stiamo presentando un idolo. Il nostro parlare di Lui si può talmente irrigidire su schemi di alternativa e opposizione da impedire di riconoscerLo presente nella povera storia degli umani, l’unica a loro disponibile.