Il momento del matrimonio
Tredimensioni, 14(2017)1, 4
Che cosa cambia con il matrimonio cristiano? Per molti (anche per quelli che lo celebrano) la risposta (forse non quella verbale) è: nulla! Lo paragonano ad una procedura di approvazione pubblica e sociale a tutto quello che già si faceva prima, ad una solennità formale che ad un certo punto interviene nella storia sentimentale senza mutarla di qualità o ad un misterioso evento spirituale che non si capisce bene cosa sia. Con buona pace di chi predica che il matrimonio sacramento è nuovo evento di salvezza.
Se nulla cambia, è un fatto irrilevante, se irrilevante è modificabile, se modificabile è revocabile.
Invece è un evento che segna irrimediabilmente la vita di chi lo compie perché pone in essere qualcosa di completamente nuovo. Il fatto di sposarsi in Chiesa crea una linea di demarcazione fra il prima e il dopo facendo iniziare qualcosa che prima non c'era. Cambia il tipo di amore: da gratuito a debito reciproco.
L'amore dei fidanzati è un regalo libero, quello degli sposi è un debito reciproco.
I fidanzati si danno l’amore gratis. Se lo danno perché così piace a loro e finché permane il desiderio di farsi il regalo. Se si lasciano nessuno li considera alla stregua dei separati. Loro non si devono il loro amore.
Invece gli sposi sì. Il matrimonio cristiano fa del loro amore un amore dovuto. Con il «sì» del matrimonio, l’amore - prima gratuito - diventa amore dovuto. Ci si impegna a doversi amare.
L'amore tra uomo e donna, al suo principio è qualcosa che non è dovuto, che si dà gratis. Invece, con la decisione volontaria di sposarsi, diventa una cosa dovuta. L'uomo ormai non possiede più la sua mascolinità perché l'ha donata alla donna e la donna non possiede più la femminilità perché l'ha donata all'uomo, cosicché non sono più due persone in relazione, bensì una sola carne (non è una bella frase ma una realtà). Amarsi da sposi è volersi amare a titolo di debito reciproco. Dopo essersi regalati reciprocamente, ora dichiarano di doversi l’uno all’altro. Poiché si sono resi l'uno dell'altra, l'amore liberamente dato all'altro diventa amore dovuto all'altro per debito contratto.
La linea di demarcazione dice che dopo il sì c'è del tutt'altro. È importante sottolinearlo, quasi esagerarlo. Infatti se fra il prima e il dopo non c'è nessuna differenza, non si capirà mai l'esigenza di totalità che il dopo comporta e che prima non c'era.
La totalità non è il completamento della parzialità precedente ma è la espressione di una novità prima solo intravista.
Con il matrimonio, l'amore di prima non c'è più. È diventato un'altra cosa. L'atto di sposarsi chiude un periodo e ne apre uno nuovo. Il sacramento del matrimonio è una proposta di futuro nuovo, ma se il futuro è un ripetizione dell'ieri, il sacramento è solo un tenera cerimonia che fa tanto piangere le mamme.
Debito, atto dovuto, pegno reciproco, dovere, volere ....: parole severe e fredde alle nostre orecchie ma che vanno usate se si vuole esprimere la tenacia, la cocciutaggine, la insistenza dell’amore cristiano.
Cristianamente parlano, quelli che si sposano in chiesa non stanno celebrando il loro amore (questo lo faranno al ristorante con un cin-cin) ma stanno celebrando l’amore di Dio che si insinua nel loro amore umano rendendolo nuovo, innalzandolo a sacramento. È Dio che li rende sposi. È l’amore di Dio e non la loro iniziativa che innalza il loro amore umano a sacramento. Dio li ha costituiti amanti e non se ne pentirà mai.
E, allora, le convivenze sono una minaccia al matrimonio? No. Sono tutt’altra cosa rispetto al matrimonio cristiano che, socialmente parlando è, oggi, scelta profetica e contro-corrente. Se i conviventi non hanno la prospettiva del dopo e del diverso non hanno motivo per fare il salto.
Si dice: le convivenze dimostrano la paura della gente ad assumersi la responsabilità delle scelte definitive. E perché dovrebbero farle? È, questo, un requisito imprescindibile - richiesto per natura – senza il quale non c’è vita normale? Se la riflessione riesce anche a dimostrarlo, non riesce tuttavia a convincere la gente della nostra cultura. Piuttosto che ricorrere alla irresponsabilità (nella quale la gente non si riconosce) si potrebbe ricorrere alla paura della novità, alla ritrosia a credere in un dopo nuovo senza aver avuto la prova previa che ci sarà davvero.
Si dice anche: i conviventi hanno un’identità frammentata, per cui restano alla soglia delle scelte definitive. Sarà anche così, ma se la frammentarietà per noi segnala un difetto da colmare, per chi ha un’identità così… basta così. Oggi, l’io frammentato non è più uno stato di disagio ma stato abituale di vita. Non c’è bisogno di arrivare ad un’unità di sé e quindi a prese di posizione definitive a cui attenersi con stabilità. Chi lo chiede? La società certo non lo chiede. Al contrario, chiede versatilità e cambiamento.
Si dice anche che il matrimonio esprime un’assunzione pubblica di responsabilità che le convivenze non hanno, per cui è un bene non solo per i partner ma per l’intera società. Sarà ed è certamente così. Ma quanto questo argomento è trainante? Quanto il contributo sociale può invogliare a sposarsi? Tanto più oggi che il matrimonio è visto più come affetti da sviluppare piuttosto che come valori da trasmettere.
Per «convincere» al matrimonio cristiano si può seguire la strada di svilire l’amore delle convivenze oppure si può seguire la strada della loro diversità. Distinguere cioè fra fare coppia (convivenza) e fare famiglia (matrimonio), distinzione che, per altro, è già ben chiara nella mente dei giovani «nubendi» di oggi.
Fare coppia non coincide con il fare famiglia. Sono due cose diverse, tanto è vero che il «fidanzamento» è una parola che non si usa più perché non c’è un prima e un dopo e non si può dire che la convivenza sia il primo passo per sperimentare il modo di fare famiglia.
Oggi la coppia si definisce in base a se stessa e il suo progetto è l’incontrarsi delle soggettività. Per farlo non c’è bisogno del sacramento. Basta la raffinatezza psicologica e la flessibilità mentale quando nascono incomprensioni . Sulla complementarietà duale la fede cristiana ha poco di specifico da aggiungere.
Fare famiglia è, ancora, incontrarsi ma per un «prodotto» che supera le soggettività dei partecipanti (vedi l’aspetto procreativo, ma non solo), per un qualcosa di nuovo da loro concreato ma anche donato, un «noi» guadagnato e inaspettato, programmato e imprevisto, cercato e ricevuto di fronte al quale i due si trovano confermati ma anche trasformati. Su questo prodotto nuovo la fede cristiana ha molte novità da dire.
In parole povere, il messaggio può essere: «Conviventi! Vi manca qualcosa!», oppure: «Conviventi! Sfruttate fino in fondo ciò che avete iniziato». «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20) non promette solo una migliore atmosfera conviviale ma apre la porta ad un’esperienza nuova, non possibile prima.