I pericoli delle grandi mete


Editoriale
Tredimensioni, 14(2017)2, 116   



In fatto di trasgressioni c’è qualcosa che incomincia a turbare.

In questi ultimi anni sempre più spesso arrivano in consulenza psicologica preti e religiosi (molto meno sul versante femminile dove il problema sembra vertere di più sulla «generatività» della scelta fatta) con problematiche trasgressive che sono massicce, eclatanti, a volta al limite della denuncia penale, contro ogni codice deontologico professionale prima ancora che contro la morale, veri e propri atti sociopatici nell’incuranza del danno arrecato agli altri e senza sentimenti di colpa. Non più l’innocente turbamento del primo innamoramento, ma il rapporto sessuale a prima vista con la donna sposata; non più la carezza sprovveduta al ragazzino, ma l’abuso vero e proprio con tanto di spaccio di droga; non qualche furtarello alle casse del convento, ma appropriazioni di denaro da intrallazzatore professionista.

Ciò che soprattutto colpisce è che queste cose non sono l’ultimo atto di un lento degrado progressivo ma la prima trasgressione dopo anni di «verginità». Ci stiamo riferendo al «tonfo della prima volta», cioè non a chi ormai è arrivato al culmine di trasgressioni incominciate in sordina ma a giovani preti che a pochi anni dall’ordinazione sperimentano per la prima volta la trasgressione e iniziano subito con dosi massicce, con l’innocenza e l’incoscienza (ma anche la voracità) di chi entra in un mondo finora sconosciuto. Tutto e subito!

Lascia esterrefatti la repentinità con cui queste trasgressioni si presentano. Senza periodi di incubazione. Tutte in un colpo. La diga crolla improvvisamente, di botto, senza preavvisi di crepe. Mancano i passaggi intermedi di omissioni, piccole concessioni, leggere debolezze. Liberazione catartica? Rabbia? Vendetta? Contestazione? Chissà...

E, altra meraviglia, il disconoscimento di tutto questo come problema. Che non è però il diniego di responsabilità del trasgressore incallito, fatto di manipolazione e malizia, che nega perfino l’evidente. Qui ci troviamo di fronte ad occhi innocenti, sprovveduti, di chi improvvisamente si trova nel paese delle meraviglie o nel mondo della luna, smarrito in una dimensione di vita sconosciuta. Se per caso ti dice che non ha fatto violenza ma direzione spirituale («abbiamo anche pregato insieme...») te lo dice con sincerità di cuore, senza spavalderia, con l’inconsapevole innocenza del bambino: non focalizza che le due cose sono un po’ diverse.

E tutto questo in un quadro non necessariamente psicopatologico. Non sono persone matte, bisognose di terapia o di comunità terapeutica perché il centro del loro problema non è psichico. A una indagine approfondita emerge che il loro Io non è scisso (la scissione delle patologie borderline), non alterna percezioni affettive di sé grandiose ad altre depressive. Questi preti si presentano con un senso d’identità integro, soltanto che in quell’identità convivono pacificamente diversi registri, il virtuoso e il vizioso: essi non si incontrano e ognuno dei due funziona bene in sé anche se esattamente all’opposto dell’altro e spesso in contemporanea con l’altro. Spesso sono persone di successo e virtuose, sulle quali nessuno avrebbe niente da dire. L’intelletto - la parte cognitiva - trova il suo appagamento nella vita virtuosa e nei grandi ideali; il piacere - la parte affettiva - trova la sua fonte nella vita «peccaminosa» e concreta, per cui, alla fine non c’è niente che non va: mente e cuore hanno ricevuto, ognuno, il suo. Cosa c’è che non va?

Nel trattamento, spesso salta fuori che nella formazione di queste persone c’è stata una carenza di informazione e importante diventa anche il colmare questa informazione mancante. Certo, non è tutto ma quando lo si fa c’è qualcosa di importante che si muove. E viene da pensare: se fossero stati avvisati prima, forse certe cose non sarebbero successe...

Negli anni di formazione (quindi abbastanza recenti perché in genere si tratta di persone con alle spalle pochi anni di ordinazione) hanno vissuto sotto una specie di inganno. Sono stati (giustamente) allenati alla tensione ascendente che l’ideale vocazionale deve attivare nella loro vita. Hanno sentito mille volte che crescere vuol dire avanzare, uscire sempre più da se stessi e dai propri limiti, liberarsi o almeno saper tenere sotto controllo tutto ciò che porta a ripiegarsi in se stessi. Hanno imparato a bloccare subito l’affiorare delle «tentazioni» con l’accelerazione della volontà e del sacrificio e, se non ci riuscivano, era subito pronto il consiglio di andare dallo psicologo: non poteva che essere così perché in quel mondo la virtù non contempla il suo inconveniente.

Non sono stati informati che la vita, anche del prete più convinto del mondo, non è così. Non è stato detto che è proprio del prete maturo conoscere la forza della passione e la fragilità della libertà e che proprio chi ha più personalizzato la sua fede è a rischio di perderla. Al seminarista non è stato detto che «da grande» non può ricopiare il modo di fare il prete dei preti di oggi ma che neanche si aspetti un nuovo concilio ecumenico: dovrà fare forza sulle sue sintesi e quindi è bene che incominci fin da adesso a verificare su quali elementi sta costruendo le sue sintesi. Gli è invece stato detto che da giovane prete, al suo primo ingresso in parrocchia, «deve stare a guardare con spirito di obbedienza e servizio» (ossia lasciarsi sballottare a destra e a manca dalle richieste più svariate).

Insomma, nessuno gli ha sconfitto l’idea di onnipotenza, tipica della nostra cultura, che fatica ad accettare che per vivere i valori occorre concretizzarli anche secondo un movimento discendente e quindi inevitabilmente ridurli. Ha imparato che la vita è dare ali all’anima ma non gli è stato detto che è anche calare i valori nel vissuto concreto e quindi scegliere, osare, vincolarsi a quanto scelto, pagare di persona se sbaglia e così affinare sempre più il giudizio della propria coscienza.

Negli anni del seminario si bea del fatto che lui ha scelto la parte migliore ma è anche illuso che quella scelta da sola garantisca la bontà del suo cammino e gli eviti di dover continuare un discernimento su come attuare concretamente la sua vocazione, con fedeltà certamente ma anche assumendosi il rischio della libertà e responsabilità delle proprie scelte. Non si rende conto che l’ideale di vita che ha scelto, proprio perché così alto, non solo non lo mette al riparo dal rischio della libertà ma lo espone a rischi maggiori: se avesse scelto di lavorare come fattorino anziché diventare preti avrebbe avuto tante occasioni «di peccato» in meno. Più si vola in alto e più il tonfo è grosso ma lui è stato abituato a considerare il tonfo come una cosa che appartiene a chi non ha fatto come lui il grande dono di sé.

Ci si dimentica di istruire sugli inconvenienti «del mestiere». Lo sprovveduto, non avendo messo in conto il pericolo delle alte mete, quando lo incontra ci casca in modo indecente, senza malizia ma fin sopra al collo. È travolto in un colpo solo e la trasgressione assume subito forme perverse.

Un po’ di allenamento alla furbizia non gli avrebbe fatto male.