«Maternità irresponsabili»
Tredimensioni 14(2017)3, 228
Lungi da noi contestare il valore del femminile e il ruolo della donna anche nella formazione seminaristica. Ci riferiamo, invece, ad una declinazione al femminile della paternità maschile che oggi si esercita nella famiglia ma anche nei seminari dato che il modo di essere educatore vocazionale è ispirato, sì, da principi e orientamenti dottrinali, ma è pure modellato dalla cultura circostante che entra anche in seminario, senza chiedere il permesso e spesso senza farsi riconoscere
Padre pallido
È stato anche detto che oggi il padre non è assenteperché, come Ulisse, è andato a combattere una guerra, ma perché si rifiuta di combattere nei rapporti. È in declino una funzione simbolica che finora gli era stata riconosciuta: quella di avviare nel figlio il processo di individuazione e di allenamento al futuro fatto di responsabilità e autonomia decisionale. Dicendo ciò non stiamo rimpiangendo il vecchio padre né vogliamo rimettere al suo posto defilato la nuova madre. Constatiamo solo che l’integrazione ma anche la differenziazione del maschile e del femminile, così importanti a livello educativo, non hanno ancora trovato la loro giusta calibratura.
Ciò che, a nostro parere da psicoterapeuti, viene a mancare è soprattutto l'importante funzione paterna di insegnare il conflitto, di reggerlo e di dare all'aggressività una sua forma sana. Viene a mancare un padre che non ha paura se la realtà non va come dice lui e che sa che stare in pace non significa stare nella pace. Il padre di oggi tende a fuggire il conflitto, ricorre troppo velocemente ai ripari e all’acquiescenza del dopo conflitto. Preferisce la calma e così facendo lascia addormentato il figlio quando, invece, potrebbe riconoscere il conflitto, assumerlo criticamente e aiutare il figlio a viverlo come motore di trasformazione e di crescita anziché come catastrofe. Il conflitto negato o evitato con un fare accondiscendente e sempre conciliante, all’inizio genera torpore, alla lunga genera violenza e comunque provoca la rottura dei legami.
Il padre, attraverso l'esercizio di un'aggressività sana (ad esempio con i «no» e «i sì» - pensati, motivati e soprattutto mantenuti) dimostra di saper intercettare le esigenze profonde del figlio senza farsi intrappolare dai suoi capricci momentanei: il bisogno di sentirsi protetto, di poter contare su una forza organizzata per muoversi nel mondo, di contenere l’angoscia, di separare il mondo interiore da quello esterno, di riconoscere le differenze fra se stesso e gli altri… Insomma, è un padre che permette al figlio di guardare il futuro con gli occhi del desiderio desiderabile (e non velleitario) e della speranza (e non delle false aspettative).
Formatore evanescente
Un esempio a caso. Il gruppo dei seminaristi introduce un tema importante. Ne vorrebbe discutere perché sente che va a toccare qualcosa di importante nell’attuale elaborazione che ognuno di loro sta facendo del proprio ideale di futuro prete; avvertono che non è un argomento di cronaca, ma un tema che va a stuzzicare sfide che fra pochi anni saranno anche loro. Se ne parla, ognuno dice la sua… E alla fine l’educatore conclude: «l’importante è averne parlato, aver condiviso le preoccupazioni e le idee». Giusto! Ma è solo il primo tempo! Non basta lasciare che un figlio si lasci andare, tiri fuori quello che ha dentro, dica quello che ha da dire senza bloccarsi. Dopo, occorre indirizzarlo sulla via. Altrimenti la funzione paterna si riduce ad ansiolitico: non ti preoccupare! Basta dirlo! (= non è un problema serio!). Il figlio, con suo padre, non ne parlerà più. L’educatore mammo non riesce a restare nella tensione e nell’incertezza e quando non può servirsi di risposte pre-confezionate che gli danno la tranquillità della soluzione prefabbricata si ferma ad un abbraccio che calmi le ansietà del giovane. È vero: anche Gesù con il giovane ricco e ansioso «fissatolo, lo amò», ma subito dopo lancia la sfida: vai e vendi quello che hai. L’amore che accoglie si deve evolvere in un amore che sfida…
L’armamentario del mammismo educativo è piuttosto vario ed elegantemente confezionato: «intervenire è condizionare», «non si può pretendere», «ognuno ha i suoi tempi di crescita», «il vangelo segue la logica dei piccoli passi», «l’importante è stare vicino con discrezione», «io posso intervenire solo come foro esterno», «stiamo a vedere cosa succede», «c’è sempre una soluzione», «non c’è da preoccuparsi», «niente paura, non è successo niente»… Da un lato, queste prese di posizione sono tecniche di evitamento perché non affrontano la situazione e non vi portano nessun rimedio efficace. Dall’altro lato sono gratificazioni narcisistiche perché risuonano nelle orecchie di colui che le dice come segno della sua partecipazione, della sua bontà e del suo dovere compiuto. In queste espressioni, dall’apparente partecipazione, fa capolino una proiezione benigna su tutto, che porta benevolmente a concludere: «purché ci si voglia bene, va bene!».
Il rispecchiamento reciproco non è l’ultimo criterio della buona relazione. Al massimo può essere il primo (in ordine di tempo) dato che la relazione non nasce se non c’è alleanza reciproca. Poi, bisogna vedere che sviluppo prende. Può anche essere in direzione dell’inganno reciproco. Per fortuna, non passa molto tempo, dopo la fine del seminario, che i novelli preti si accorgeranno che essere cresciuti in questo tipo di relazionalità è stato carente: ovunque sono stati destinati non è più pensabile che si aspettino di essere specchio e modello referente per tutti. Ma la relazionalità in seminario vissuta male o almeno solo a livelli che ricordano quelli dell’adolescenza è un modo di rapportarsi che non si ripara facilmente. Lascia il sentimento di essere stati traditi. Allora, alcuni si chiudono in se stessi e non credono più al confronto, altri restano a livello di relazioni buoniste, altri si trincerano dietro a posizioni autoritarie… Comunque, rischiano di non diventare educatori nel senso adulto della parola, dato che ne hanno visti pochi. Chi ricorre ai ripari deve pagare la fatica di scoprire dopo ciò che andava scoperto prima. È nei primi anni di ordinazione (se non addirittura nel primo) che si gioca la partita della intimità/isolamento.
Il vago senso di essere stati ingannati
Poi, ammesso che si sia colta la voce del cuore del seminarista, il formatore evanescente esterna la fatidica reazione «Non so che cosa fare!». E passa il «caso» allo psicologo, proprio come fa il padre biologico che al primo problema con il figlio cerca di darlo in adozione al tecnico dell’educazione. In fatto di paternità, che cosa fare non è il problema. L’importante è fare, prendere in carico, restarci comunque. Il buon padre c’è e rimane, si assume la responsabilità di dare risposte, anche se non corrispondono immediatamente alle attese, anche se si dimostreranno risposte sbagliate. A volte, l’astensionismo (con conseguente atto di delega) è tanto grande e spontaneo che non ci si ricorda neanche di ascoltare il proprio buon senso. Si ammaina la bandiera già in partenza. Non viene neanche in mente di incontrare i genitori del ragazzo che chiede di entrare in seminario, per sondare la loro impressione; ci si accontenta di sapere dal ragazzo che loro sono contro alla sua decisione. Al suo parroco si chiede qualche informazione, ma in modo sbrigativo e sommario, con una telefonatina veloce o incrociandolo per caso nei corridoi del seminario. Se quel ragazzo ha un curriculum lavorativo, non viene neanche in mente di chiedere di lui al suo ex datore di lavoro o ai suoi ex colleghi…
Basterebbe un pochino di cura in più per l’espletamento del proprio ruolo. Nei nostri seminari potrebbe succedere che ci sia più attenzione per la scelta del personale delle pulizie, cercando referenze e chiedendo curricula, che per l’ammissione di un nuovo seminarista anche se dimesso da altri seminari. Di fronte ad omissioni così massive viene da pensare che quel formatore abbia accettato l’incarico più per compiacenza che per convinzione, lui - il primo - a non metterci il suo cuore con una sottoscrizione di impegno vincolante che rende superflue le pie intenzioni.
La paura della lotta e del rifiuto
Quello della lotta è un momento delicato che mette a rischio l’educatore, esponendolo al pericolo della disaffezione. Però è in questa lotta che si può inserire e verificare l’azione dello Spirito. Accettare il rischio di una lotta fino a sostenere la prova di inutilità del proprio operato è un passaggio necessario per accedere al senso della paternità. La paura di non essere riconosciuto scatta proprio quando si incomincia ad intercettare una domanda profonda di cui l’interessato stesso incomincia ad accorgersi e che al primo impatto neanche a lui sembra buona. Il padre mammo teme il rifiuto. Non sa sostenere la prova della sua inutilità. Può reagire con il registro affettivo del buonismo, ma anche con quello autoritario di chi pensa di essere il custode del senso e di conoscerne i sentieri. Due modi opposti di esercizio di dominazione dai frutti di omologazione.
La paternità (a differenza dell’insegnamento) non si gioca sui contenuti, ma sul metodo che il giovane in formazione sta usando per cercare da se stesso la verità e il suo bene reale. Il padre «maschio» non trasmette il metodo del discernimento insegnando, ma con domande, metafore e qualche volte provocazioni che non vogliono portare il ragazzo ad arrivare dove è lui, ma a produrre riflessioni che portano il ragazzo lontano, in scenari mai visti e anche imprevedibili e - di conseguenza - a mettere in atto atti di coraggio e prese di posizione che spiazzano l’abitudinario e prepotentemente invitano a rimettersi in cammino. Il figlio vedrà la fatica, l’esperienza, la saggezza del padre e la farà sua, con concretizzazioni diverse, con il suo modo di diventare padre, senza restare l’eterno prigioniero di suo padre.