Guerre tra fratelli
Editoriale
Tredimensioni XIX (2022) 233-238
Viviamo un tempo di desolazione[1], sotto il cielo cupo della guerra. Siamo stati risvegliati improvvisamente, nel mezzo di un incubo incredibile, dal sonno di una pace facile, scontata, mai riconosciuta come una conquista e un dono dalle generazioni del dopoguerra mondiale; una pace alla quale ci siamo abituati, magari annoiati da tutto ciò che voleva essere memoria e antidoto di un’altra guerra mondiale nel cuore dell’Europa, senza accorgerci delle ingiustizie che corrodevano dall’interno le strutture, che scavavano una voragine sotto il terreno fragile di una convivenza fondata sul benessere, indebolendo i principi di coesione e solidarietà nelle relazioni sociali ed economiche. Ciò che colpisce dentro questa immane tragedia di sofferenza e crudeltà è che si tratti di una guerra tra fratelli: tra fratelli che parlano per lo più la stessa lingua e spesso con legami di parentela e amicizia, anche tra fratelli di fede cristiana. Non è però l’unica guerra o il solo conflitto tra fratelli, tra uguali. Ci sono altre guerre sostanzialmente civili: il terrorismo islamico per la quasi totalità tra fratelli; le divisioni dentro l’Europa per cui alcuni migranti o richiedenti asilo sono più uguali di altri; i disaccordi sempre più aspri all’interno delle singole nazioni, nella crescente difficoltà a riconoscere valori trascendenti comuni e principi di solidarietà; e, ancora, i conflitti non solo tra cristiani ortodossi o tra sette cristiane, ma anche – in modo preoccupante ed evidente – tra ecclesiastici cattolici.
L’insidia specifica della fraternità
Il teologo Pierangelo Sequeri (in una recente conversazione sul carisma di Charles de Foucauld[2]) ha approfondito il tema della fraternità[3]: soffermandosi sul verbo “fraternizzare” ha riconosciuto in esso una profetica intuizione teologica per la missione futura della Chiesa. Sequeri ha nitidamente messo in luce che il rapporto fraterno ha la sua specifica insidia nel conflitto[4] tra uguali, che caratterizza prima di tutto i conflitti nella comunione ecclesiale, oltre che le guerre – tutte civili – combattute di questo tempo.
L’insidia specifica della fraternità è l’uguaglianza, l’insopportabilità della differenza, la delusione della differenza [...]. Fraternità è un amore che ha la sua difficoltà, non è che risolve i conflitti, porta il suo conflitto. Non stiamo assistendo in questo momento, con vergogna, all’esplosione nella Chiesa dei conflitti della fraternità, dove gli uni gli altri si danno dell’eretico? Dove stiamo discutendo come degli imbecilli sul latino e l’italiano…abbiamo delle Messe che fanno pena letteralmente, non sono il sacrificio di Cristo, fanno pena e basta… e noi discutiamo! Ormai basta un niente… E ci piace il Papa e non ci piace. Il mondo sta percependo che siamo occupati da questioni di preti, di più rispetto a prima del Concilio Vaticano II, molto di più. In questo momento noi abbiamo solo questioni di preti, tra preti, tra monsignori, vescovi. Dispute interne che a confronto almeno la Riforma era una sola… la grande battaglia… […] Noi siamo una cultura che ha conquistato ormai definitivamente il principio di uguaglianza e con ciò ha dato inizio alle «lotte mimetiche» (come dice René Girard), cioè alle lotte di confronto tra gli eguali. […] L’insidia del mondo globale attuale è una tale adorazione dell’uguaglianza, da spremere al rapporto umano i veleni tossici dell’uguaglianza invece che il filtro benefico della fraternità; quindi dell’umano che è comune, della solidarietà con una umanità che è imperfetta. L’umanità amata da Dio è una umanità imperfetta e lo sarà sempre! Poco più, poco meno, ma imperfetta! […] Questa è l’insidia della fraternità che in questo momento minaccia la comunione civile. La guerra mondiale “a pezzetti” di cui parla papa Francesco sono tutte guerre civili perché il mondo globale si concepisce con una certa retorica dell’umanità comune dove tutti sono uguali, hanno pari dignità e pari diritti. Dentro questa concezione il mondo oggi […] si fa sorprendere – perché è ottusità, stupidità – dal contraccolpo del legame tra fraternità e uguaglianza. Il contraccolpo sono lotte degli uguali, rivalità fraterne. Più scompare il padre, più la rivalità fraterna dilaga. Una società di uguali è una società destinata al tutti contro tutti. Questa è una bella sfida per il cristianesimo[5].
In questa prospettiva dell’insidia del conflitto tra pari, riconosciamo la radice – oltre che dei litigi ecclesiali e delle sanguinose lotte civili – anche di tante divisioni della nostra società, compresa la discriminazione tra poveri o tra profughi differenti.
Anestesia dal dolore dell’altro e mancata fraternità
In questo tempo di guerra si continua ad attentare – in ogni contesto, nelle nostre relazioni e responsabilità – alla fraternità, cadendo nell’insidia di un conflitto tra uguali. Se non si è toccati in profondità e feriti intimamente dal dolore[6] (anche nel sentire) non si può custodire la fraternità, vicina e lontana, ma si scade nel conflitto insanabile. In vari modi si mettono in atto forme anestetiche difensive rispetto al dolore della guerra, e così si rimane più scoperti e vulnerabili, anche nel quotidiano, all’insidia del conflitto tra fratelli.
- C’è l’anestesia del sentire di chi si appassiona al gioco brutale della guerra, come fosse un videogame. Nella centrifuga delle informazioni ci si lascia drogare dalle rappresentazioni del nemico, del buono e del cattivo, e ci si può lasciar travolgere da una tifoseria per una o l’altra parte, senza percepire il dolore, l’ingiustizia, la distruzione, la crudeltà, gli abusi di ogni genere, l’intelligenza brutale e perversa degli armamenti e della logica del loro mercato. La teoria del nemico anestetizza e cronicizza facilmente i conflitti familiari, sociali, ecclesiali, anche vicini.
- Un’altra anestesia del sentire sta nel fondamentalismo (purtroppo in questo caso, fa male a dirlo) cristiano, che trova giustificazione[7] al male, alle guerre e ai conflitti fissandosi su aspetti parziali e dissociati della dottrina, arrogandosi un’assolutezza di verità per purificare il mondo con la prepotenza, negando che il male è prima di tutto in sé stessi e nella propria Chiesa di qualunque confessione sia, senza accorgersi di schiacciare ed eliminare la vita del prossimo annientandola. Come dice fra Luc, l’anziano medico e monaco in Uomini di Dio, citando B. Pascal nella lettera ad un amico: «Non si fa mai il male così pienamente e così allegramente come quando lo si fa per motivi religiosi!»[8]. Non a caso più volte papa Francesco ha parlato di guerra “sacrilega”. Ciò avviene non solo in riferimento al conflitto in atto per eliminare l’indipendenza e l’identità dell’Ucraina, ma anche nell’atteggiamento del non sentire il prossimo, tipico di ogni fariseismo che si chiude nei dubia proprio laddove la Chiesa apre.
- C’è l’anestesia di chi si distrae rieditando, nei dibattiti sui social, le proprie vecchie ideologie con le relative facili soluzioni, almeno a parole, del tipo: «Basterebbe che… sarebbe stato sufficiente che…». Di solito ciascun opinion maker si fissa su una sola variabile, l’unica che dà valore al suo punto di vista, ignorando la complessità, dimenticando la storia e il dilagare del male. Così capita per alcuni gruppi più estremisti, sia tradizionalisti che progressisti, anche in ambito religioso, che si preoccupano di ribadire e ripetere la loro teoria piuttosto che mobilitarsi per alleviare il dolore e affrontare i conflitti, dei quali si è sempre corresponsabili.
Analfabetismo emotivo e autorità
Comprendiamo bene che la prospettiva scelta per leggere questo tempo è parziale, ma necessaria. Spesso papa Francesco ha ripetuto che non sappiamo più né piangere né gioire: due espressioni intimamente legate tra loro. Un sintomo sempre più rilevante e trasversale, emergente dal vissuto di differenti situazioni esistenziali, è l’“alexitimia”, ossia l’incapacità di percepire ed esprimere le proprie emozioni, che alcuni autori hanno denominato anche “analfabetismo emotivo”. Costituisce una difesa dal sentire i legami affettivi e sociali, e non di rado si associa a forme di impulsività e violenza. Persone che appaiono razionali e impegnate sul fronte di grandi principi morali possono risultare affette da questo problema, che rende incapaci di empatizzare con ciò che gli altri vivono, anzi – infastidite dalle emozioni che esprimono sofferenza – diventano impositive e talvolta abusanti nel modo di gestire la propria responsabilità educativa, lavorativa e istituzionale. Da qui risulta chiaro quanto la qualità delle relazioni paritarie sia il luogo più vero di manifestazione di sé stessi e di crescita del rispetto e della responsabilità nella libertà. La condizione di ogni persona (a prescindere dal suo ruolo e dal suo compito, familiare, sociale o istituzionale) è sempre quella di essere “con” prima di essere “per”, o essere “per” senza mai dimenticarsi di essere “con”. L’articolazione e l’integrazione tra autorità e fraternità, tra paternità e fraternità, non solo sono decisive per lo stile e la qualità delle relazioni istituite di chi ha funzioni di governo e direzione, ma diventano assolutamente necessarie per custodire il senso delle istituzioni ecclesiali e sociali.
Il fondamento ultimo della fraternità
L’ultimo capitolo della Fratelli tutti tematizza il fondamento ultimo della fraternità (272-273). Senza una apertura al Padre di tutti non ci possono essere ragioni valide e stabili per la fraternità. La ragione, da sola, è in grado di affermare l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire le regole di una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. A questo proposito Francesco cita un testo memorabile di Benedetto XVI, la lettera enciclica Caritas in veritate (19):
Tredimensioni XIX (2022) 233-238
Viviamo un tempo di desolazione[1], sotto il cielo cupo della guerra. Siamo stati risvegliati improvvisamente, nel mezzo di un incubo incredibile, dal sonno di una pace facile, scontata, mai riconosciuta come una conquista e un dono dalle generazioni del dopoguerra mondiale; una pace alla quale ci siamo abituati, magari annoiati da tutto ciò che voleva essere memoria e antidoto di un’altra guerra mondiale nel cuore dell’Europa, senza accorgerci delle ingiustizie che corrodevano dall’interno le strutture, che scavavano una voragine sotto il terreno fragile di una convivenza fondata sul benessere, indebolendo i principi di coesione e solidarietà nelle relazioni sociali ed economiche. Ciò che colpisce dentro questa immane tragedia di sofferenza e crudeltà è che si tratti di una guerra tra fratelli: tra fratelli che parlano per lo più la stessa lingua e spesso con legami di parentela e amicizia, anche tra fratelli di fede cristiana. Non è però l’unica guerra o il solo conflitto tra fratelli, tra uguali. Ci sono altre guerre sostanzialmente civili: il terrorismo islamico per la quasi totalità tra fratelli; le divisioni dentro l’Europa per cui alcuni migranti o richiedenti asilo sono più uguali di altri; i disaccordi sempre più aspri all’interno delle singole nazioni, nella crescente difficoltà a riconoscere valori trascendenti comuni e principi di solidarietà; e, ancora, i conflitti non solo tra cristiani ortodossi o tra sette cristiane, ma anche – in modo preoccupante ed evidente – tra ecclesiastici cattolici.
L’insidia specifica della fraternità
Il teologo Pierangelo Sequeri (in una recente conversazione sul carisma di Charles de Foucauld[2]) ha approfondito il tema della fraternità[3]: soffermandosi sul verbo “fraternizzare” ha riconosciuto in esso una profetica intuizione teologica per la missione futura della Chiesa. Sequeri ha nitidamente messo in luce che il rapporto fraterno ha la sua specifica insidia nel conflitto[4] tra uguali, che caratterizza prima di tutto i conflitti nella comunione ecclesiale, oltre che le guerre – tutte civili – combattute di questo tempo.
L’insidia specifica della fraternità è l’uguaglianza, l’insopportabilità della differenza, la delusione della differenza [...]. Fraternità è un amore che ha la sua difficoltà, non è che risolve i conflitti, porta il suo conflitto. Non stiamo assistendo in questo momento, con vergogna, all’esplosione nella Chiesa dei conflitti della fraternità, dove gli uni gli altri si danno dell’eretico? Dove stiamo discutendo come degli imbecilli sul latino e l’italiano…abbiamo delle Messe che fanno pena letteralmente, non sono il sacrificio di Cristo, fanno pena e basta… e noi discutiamo! Ormai basta un niente… E ci piace il Papa e non ci piace. Il mondo sta percependo che siamo occupati da questioni di preti, di più rispetto a prima del Concilio Vaticano II, molto di più. In questo momento noi abbiamo solo questioni di preti, tra preti, tra monsignori, vescovi. Dispute interne che a confronto almeno la Riforma era una sola… la grande battaglia… […] Noi siamo una cultura che ha conquistato ormai definitivamente il principio di uguaglianza e con ciò ha dato inizio alle «lotte mimetiche» (come dice René Girard), cioè alle lotte di confronto tra gli eguali. […] L’insidia del mondo globale attuale è una tale adorazione dell’uguaglianza, da spremere al rapporto umano i veleni tossici dell’uguaglianza invece che il filtro benefico della fraternità; quindi dell’umano che è comune, della solidarietà con una umanità che è imperfetta. L’umanità amata da Dio è una umanità imperfetta e lo sarà sempre! Poco più, poco meno, ma imperfetta! […] Questa è l’insidia della fraternità che in questo momento minaccia la comunione civile. La guerra mondiale “a pezzetti” di cui parla papa Francesco sono tutte guerre civili perché il mondo globale si concepisce con una certa retorica dell’umanità comune dove tutti sono uguali, hanno pari dignità e pari diritti. Dentro questa concezione il mondo oggi […] si fa sorprendere – perché è ottusità, stupidità – dal contraccolpo del legame tra fraternità e uguaglianza. Il contraccolpo sono lotte degli uguali, rivalità fraterne. Più scompare il padre, più la rivalità fraterna dilaga. Una società di uguali è una società destinata al tutti contro tutti. Questa è una bella sfida per il cristianesimo[5].
In questa prospettiva dell’insidia del conflitto tra pari, riconosciamo la radice – oltre che dei litigi ecclesiali e delle sanguinose lotte civili – anche di tante divisioni della nostra società, compresa la discriminazione tra poveri o tra profughi differenti.
Anestesia dal dolore dell’altro e mancata fraternità
In questo tempo di guerra si continua ad attentare – in ogni contesto, nelle nostre relazioni e responsabilità – alla fraternità, cadendo nell’insidia di un conflitto tra uguali. Se non si è toccati in profondità e feriti intimamente dal dolore[6] (anche nel sentire) non si può custodire la fraternità, vicina e lontana, ma si scade nel conflitto insanabile. In vari modi si mettono in atto forme anestetiche difensive rispetto al dolore della guerra, e così si rimane più scoperti e vulnerabili, anche nel quotidiano, all’insidia del conflitto tra fratelli.
- C’è l’anestesia del sentire di chi si appassiona al gioco brutale della guerra, come fosse un videogame. Nella centrifuga delle informazioni ci si lascia drogare dalle rappresentazioni del nemico, del buono e del cattivo, e ci si può lasciar travolgere da una tifoseria per una o l’altra parte, senza percepire il dolore, l’ingiustizia, la distruzione, la crudeltà, gli abusi di ogni genere, l’intelligenza brutale e perversa degli armamenti e della logica del loro mercato. La teoria del nemico anestetizza e cronicizza facilmente i conflitti familiari, sociali, ecclesiali, anche vicini.
- Un’altra anestesia del sentire sta nel fondamentalismo (purtroppo in questo caso, fa male a dirlo) cristiano, che trova giustificazione[7] al male, alle guerre e ai conflitti fissandosi su aspetti parziali e dissociati della dottrina, arrogandosi un’assolutezza di verità per purificare il mondo con la prepotenza, negando che il male è prima di tutto in sé stessi e nella propria Chiesa di qualunque confessione sia, senza accorgersi di schiacciare ed eliminare la vita del prossimo annientandola. Come dice fra Luc, l’anziano medico e monaco in Uomini di Dio, citando B. Pascal nella lettera ad un amico: «Non si fa mai il male così pienamente e così allegramente come quando lo si fa per motivi religiosi!»[8]. Non a caso più volte papa Francesco ha parlato di guerra “sacrilega”. Ciò avviene non solo in riferimento al conflitto in atto per eliminare l’indipendenza e l’identità dell’Ucraina, ma anche nell’atteggiamento del non sentire il prossimo, tipico di ogni fariseismo che si chiude nei dubia proprio laddove la Chiesa apre.
- C’è l’anestesia di chi si distrae rieditando, nei dibattiti sui social, le proprie vecchie ideologie con le relative facili soluzioni, almeno a parole, del tipo: «Basterebbe che… sarebbe stato sufficiente che…». Di solito ciascun opinion maker si fissa su una sola variabile, l’unica che dà valore al suo punto di vista, ignorando la complessità, dimenticando la storia e il dilagare del male. Così capita per alcuni gruppi più estremisti, sia tradizionalisti che progressisti, anche in ambito religioso, che si preoccupano di ribadire e ripetere la loro teoria piuttosto che mobilitarsi per alleviare il dolore e affrontare i conflitti, dei quali si è sempre corresponsabili.
Analfabetismo emotivo e autorità
Comprendiamo bene che la prospettiva scelta per leggere questo tempo è parziale, ma necessaria. Spesso papa Francesco ha ripetuto che non sappiamo più né piangere né gioire: due espressioni intimamente legate tra loro. Un sintomo sempre più rilevante e trasversale, emergente dal vissuto di differenti situazioni esistenziali, è l’“alexitimia”, ossia l’incapacità di percepire ed esprimere le proprie emozioni, che alcuni autori hanno denominato anche “analfabetismo emotivo”. Costituisce una difesa dal sentire i legami affettivi e sociali, e non di rado si associa a forme di impulsività e violenza. Persone che appaiono razionali e impegnate sul fronte di grandi principi morali possono risultare affette da questo problema, che rende incapaci di empatizzare con ciò che gli altri vivono, anzi – infastidite dalle emozioni che esprimono sofferenza – diventano impositive e talvolta abusanti nel modo di gestire la propria responsabilità educativa, lavorativa e istituzionale. Da qui risulta chiaro quanto la qualità delle relazioni paritarie sia il luogo più vero di manifestazione di sé stessi e di crescita del rispetto e della responsabilità nella libertà. La condizione di ogni persona (a prescindere dal suo ruolo e dal suo compito, familiare, sociale o istituzionale) è sempre quella di essere “con” prima di essere “per”, o essere “per” senza mai dimenticarsi di essere “con”. L’articolazione e l’integrazione tra autorità e fraternità, tra paternità e fraternità, non solo sono decisive per lo stile e la qualità delle relazioni istituite di chi ha funzioni di governo e direzione, ma diventano assolutamente necessarie per custodire il senso delle istituzioni ecclesiali e sociali.
Il fondamento ultimo della fraternità
L’ultimo capitolo della Fratelli tutti tematizza il fondamento ultimo della fraternità (272-273). Senza una apertura al Padre di tutti non ci possono essere ragioni valide e stabili per la fraternità. La ragione, da sola, è in grado di affermare l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire le regole di una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. A questo proposito Francesco cita un testo memorabile di Benedetto XVI, la lettera enciclica Caritas in veritate (19):
[1] Cf in questo numero l’articolo di C. Dobner, Phenthos: la compunzione, pp. 304-313.
[2] Cf P. Sequeri, Che si veda solo Gesù. Incontro di formazione del Clero sulla figura di san Charles De Foucauld, 3a parte: Fraternizzare, Centro Pastorale Ambrosiano Seveso, https://youtube.com; P. Sequeri, Charles de Foucauld. Una profezia di Chiesa ancora inattuale, in «La Rivista del Clero Italiano», 10 (2021), pp. 691-699.
[3] La conclusione dell’enciclica Fratelli tutti si riferisce a Charles De Foucauld. «Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello, e chiedeva a un amico: “Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese”. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”». (Francesco, Fratelli tutti, 287, http://www.vatican.va).
[4] Cf in “Educatori al lavoro” di questo numero: Equipe Formazione Permanente del Clero della diocesi di Milano, I conflitti mettono alla prova, ma aprono la strada, pp. 314-324.
[5] P. Sequeri, Che si veda solo Gesù. Incontro di formazione del Clero sulla figura di san Charles De Foucauld, 3a parte: Fraternizzare, cit.
[6] Cf in questo numero l’articolo di E. Parolari, L’antropologia del limite: un dialogo con Vittorino Andreoli, pp. 272-282.
[7] Cf in questo numero l’articolo di P. Monzani, «Perché tutto questo?». L’accompagnamento e il problema della teodicea, pp. 283-294.
[8] Uomini di Dio (Des hommes et des dieux) è un film del 2010 diretto da Xavier Beauvois e basato sull'assassinio dei monaci di Tibhirine avvenuto nel 1996.
[2] Cf P. Sequeri, Che si veda solo Gesù. Incontro di formazione del Clero sulla figura di san Charles De Foucauld, 3a parte: Fraternizzare, Centro Pastorale Ambrosiano Seveso, https://youtube.com; P. Sequeri, Charles de Foucauld. Una profezia di Chiesa ancora inattuale, in «La Rivista del Clero Italiano», 10 (2021), pp. 691-699.
[3] La conclusione dell’enciclica Fratelli tutti si riferisce a Charles De Foucauld. «Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a sentire qualunque essere umano come un fratello, e chiedeva a un amico: “Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di tutte le anime di questo paese”. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”». (Francesco, Fratelli tutti, 287, http://www.vatican.va).
[4] Cf in “Educatori al lavoro” di questo numero: Equipe Formazione Permanente del Clero della diocesi di Milano, I conflitti mettono alla prova, ma aprono la strada, pp. 314-324.
[5] P. Sequeri, Che si veda solo Gesù. Incontro di formazione del Clero sulla figura di san Charles De Foucauld, 3a parte: Fraternizzare, cit.
[6] Cf in questo numero l’articolo di E. Parolari, L’antropologia del limite: un dialogo con Vittorino Andreoli, pp. 272-282.
[7] Cf in questo numero l’articolo di P. Monzani, «Perché tutto questo?». L’accompagnamento e il problema della teodicea, pp. 283-294.
[8] Uomini di Dio (Des hommes et des dieux) è un film del 2010 diretto da Xavier Beauvois e basato sull'assassinio dei monaci di Tibhirine avvenuto nel 1996.