Cosa fa ammalare i leader nella Chiesa?
Tredimensioni XVIII (2021) 3, 232-235
È facile riscontrare che molti leader nella Chiesa si trovano in notevole difficoltà su una molteplicità di fronti. Sono situazioni complesse originate da vari fattori, tra i quali sicuramente le fragilità personali del leader: i cambiamenti di ruolo e l’assunzione di nuove responsabilità sono eventi che frequentemente portano alla luce, spesso con prepotenza, temi di vita irrisolti o sfidano la persona in alcune aree di maturazione che prima rimanevano sottotraccia.
Ma oltre alle immaturità sul piano personale è evidente la compresenza di fattori istituzionali che tendono a “far ammalare” i leader nella Chiesa. Il potere è sicuramente uno snodo cruciale sul quale convergono diversi elementi non solo personali ma anche organizzativi e culturali: non a caso oggi le riforme più invocate riguardano la distribuzione delle funzioni organizzative, la trasparenza dei processi decisionali, l’accountability delle figure coinvolte... Anche temi squisitamente ecclesiali come la sinodalità e la nascita di nuovi ministeri diventano realmente incisivi se vengono declinati in modo tale da distinguere i tipi di potere in gioco e da regolare le modalità del loro esercizio. Altrimenti, limitarsi ad affermazioni di principio rischia di alimentare una visione idealizzata, che induce a fuggire dai problemi reali anziché aiutare ad affrontarli.
Un primo aspetto istituzionale che merita attenzione è il livello di concentrazione del potere su una sola persona, come ad esempio il vescovo in una diocesi, il parroco in una parrocchia, la superiora generale in una congregazione. Il diritto canonico attribuisce a questi leader innumerevoli funzioni e responsabilità, anche molto diverse tra loro: essi hanno infatti la prima e l’ultima parola nelle decisioni di governo, nella revisione delle normative, nel giudizio sui singoli casi; al tempo stesso devono essere modelli e punti di riferimento per la vita spirituale, per l’attenzione ai membri più fragili della propria istituzione, per i rapporti con l’esterno... Appare piuttosto evidente che le aspettative e le responsabilità che ricadono su un’unica persona sono estremamente elevate, e ciò si accompagna in genere ad una carente precisazione delle modalità di esercizio di queste varie funzioni. Una tale configurazione istituzionale aumenta il rischio di processi decisionali poco trasparenti che possono sfociare in una leadership segnata da atteggiamenti autoritari o, al contrario, dimissionari rispetto alle proprie responsabilità. In entrambi i casi, la fatica del leader si ripercuote sull’istituzione e viceversa, creando non di rado malcontento nei livelli sottostanti dell’organizzazione, nonché la nascita di altri leader informali che gestiscono con estrema discrezionalità ampie porzioni di potere. [1]
Un secondo fattore istituzionale che merita attenzione è la sacralizzazione della persona che riveste un ruolo di leadership. I documenti ufficiali delle istituzioni religiose presentano sovente la figura del superiore come quella di un modello di virtù ed esortano ogni membro a nutrire nei suoi confronti atteggiamenti non solo di rispetto e collaborazione ma anche di figliolanza. Questo immaginario contribuisce notevolmente ad aumentare sul piano affettivo le attese verso il leader, dal quale ci si aspetta non solo una parola di indirizzo per il cammino comune, ma anche sostegno, correzione, conforto, consiglio per questioni personali. A ciò si aggiunge il particolare che nella Chiesa cattolica la gerarchia è anzitutto quella legata al sacramento dell’Ordine e quindi è costituita (salvo eccezioni come i greco-cattolici e altri riti minoritari) da maschi celibi. Non si può dimenticare, inoltre, che in genere si arriva a quel potere (assoluto) all’improvviso, senza un adeguato cursus honorum, come accadrebbe in altre professioni. Si coglie immediatamente come il tema del potere si mescola fortemente con dimensioni che sono anzitutto affettive e culturali: questa sacralizzazione delle figure di autorità – con conseguente crescita esponenziale delle aspettative nei loro confronti – aumenta la solitudine del leader e la sua percezione di una forte distanza tra la sua persona e queste idealizzazioni. Nel tempo anche una persona sana può logorarsi e scadere in forme di utilizzo del potere che mirano a portare attenzioni e lodi sulla sua persona in modo compensatorio, evitando al contempo quelle sfide e responsabilità che metterebbero in discussione le sue capacità. [2]
Un terzo fattore di rischio per un corretto esercizio del potere è dato da alcune concezioni teologiche errate o incomplete, che vengono utilizzate per legittimare a livello culturale e religioso prassi inadeguate. Non possiamo qui sviluppare tematiche così ampie, ma ci limitiamo a evocare alcuni concetti chiave: il sacrificiopresentato in modo tale che, anziché porre attenzione sull’aspetto di dono libero e gratuito per Dio, viene trasformato in una esaltazione della rinuncia («Sei tanto più santo quanto più sei disponibile a rinunciare alle tue esigenze personali»); la grazia sacramentale la quale, invece di richiamare un incontro personale con Dio che attraverso la liturgia interpella il credente, diventa la legittimazione di una concezione magica dei sacramenti («Ricevere i sacramenti ti santifica in ogni caso»); l’obbedienza a Dio spesso identificata con l’obbedienza al superiore; la grazia di stato che, anziché sottolineare l’importanza per la vita spirituale di vivere bene le funzioni legate al proprio ruolo così che esso divenga uno spazio di dialogo con Dio, è fraintesa come una legittimazione a posteriori dei ruoli assegnati («Non importa se quella persona non ha le competenze per rivestire quel ruolo perché la grazia di stato supplisce»).
Infine, come ultimo aspetto ricordiamo che la cultura organizzativa si comunica anche attraverso simboli e prassi consolidate che, spesso in modo poco riflesso, veicolano una serie di messaggi e contribuiscono fortemente nel formare sia le singole persone che una mentalità diffusa. Anche per questo, generalmente si trasmettono a catena dinamiche di potere analoghe a tutti i livelli di una istituzione. Non di rado nella Chiesa si utilizzano simboli nati in altre epoche e in altri contesti sociali: il rischio non è solo quello di non parlare più agli uomini e alle donne di oggi, ma soprattutto di trasmettere messaggi ben diversi da quanto si voleva. Per intuire questa realtà esplicitiamo solo alcuni esempi. Sembra francamente sviante, rispetto alla sacralità del rito, vedere ministranti inginocchiati per tenere il messale o il microfono a chi presiede, qualsiasi sia la solennità o il grado di chi celebra. Non sembra in sintonia con la bellezza e la sobrietà austera della liturgia indossare paramenti preziosi antichi o postmoderni da museo, così come contrasta con la dignità nobile e umile di un ministro notare ecclesiastici vestiti con una ricercatezza moderna o antica, che inevitabilmente attira lo sguardo della gente come ad una sfilata di moda. Sembra debitrice di una visione principesca [3] la prassi del bacio dell’anello di un ecclesiastico, similmente all’uso della mitria che, per quante energie si spendano a spiegarne l’origine e il significato, richiama piuttosto qualcosa di strano o di bizzarro. Infine, sembra proprio inopportuno che un bambino canti da solista in mezzo ad un’assemblea di adulti e di anziani. Ci sono simboli abituali all’interno del mondo ecclesiastico che invece risultano ambigui nel loro significato di dominazione e sudditanza, se solo si guardano un poco dall’esterno da credenti e non.
La domanda di fondo che riassume bene la riflessione sulla gestione del potere è delineata da Hillman: «Come è possibile esercitare potere, fare qualunque cosa da agenti, senza per questo dominare?» [4]
[1] La distribuzione del potere è uno degli elementi chiave di una riforma, certamente non l’unico. La semplice democratizzazione di alcuni processi decisionali non è garanzia di efficacia. Su questo cf L. Balugani, Quando un leader immaturo è preferito ad uno maturo, in «Tredimensioni», 3 (2006), pp. 166-179.
[2] Su questo tema segnaliamo due editoriali della nostra rivista: Sotto il vestito... (niente?), in «Tredimensioni», 5(2008), pp. 228-235; Il cinismo degli illustrissimi, in «Tredimensioni», 13(2016), pp. 116-119.
[3] Francesco, Discorso ai vescovi dei territori di missione partecipanti al seminario promosso dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Sala Clementina, 8 settembre 2018.
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