Intercultura e formazione


Editoriale
Tredimensioni, XX (2023) 234-238


In una società globalizzata, l’incontro tra persone di culture differenti è frequente e si presenta nelle situazioni più varie. Tuttavia, è facile osservare che raramente il dialogo va oltre la semplice curiosità per ciò che è diverso, e spesso il patto implicito si basa su un alto livello di autonomia reciproca: ci rispettiamo cercando di non invadere l’uno gli spazi dell’altro.
Questa mentalità mostra la propria pochezza non appena la situazione impone contatti quotidiani e scelte comuni, come la partecipazione ad un unico progetto lavorativo o la coabitazione. Non si tratta soltanto di scendere a maggiori compromessi, ma di modificare l’orizzonte che definisce il nostro stare insieme, non più impegnati a salvaguardare la reciproca autonomia ma partecipi di un cammino comune, nel quale entrambi saremo provocati a cambiare e il cui esito non è del tutto prevedibile.
Aspettarsi di trovare sempre questo orizzonte di condivisione nelle comunità religiose, per il fatto che esse nascono da una vocazione comune ed esprimono un tentativo di realizzare una vita fraterna, è una ingenuità che deriva dal non aver compreso quanto le differenze culturali incidano nel profondo di ciascuno di noi. 

I diversi livelli della cultura 
Quando pensiamo alle differenze culturali, subito vengono in mente le diversità di comportamenti e abitudini, ad es. riguardo il cibo, gli orari, il modo di vestire e di parlare. Non è difficile accorgersi che ci sono differenze a un livello più profondo, che riguardano il modo con il quale in una data cultura si affrontano le esperienze fondamentali della vita come la famiglia, il senso del dovere, il rapporto con l’autorità, la malattia, il lutto, l’appartenenza ad una comunità. Imparare a dialogare e a confrontarsi su questi temi richiede tempo, pazienza e una generosa disponibilità a voler imparare gli uni dagli altri. 
Ma esiste un livello ancora più profondo, che riguarda la concezione stessa di cosa è la vita e cosa è il sacro, e come ci si rapporta con esso. Tale livello è espresso nei miti di una cultura e nei suoi valori fondanti. Ad es., è ben diverso portare nel cuore la convinzione che gli eventi importanti dell’esistenza dipendono dalle nostre scelte o dal caso, o invece sono determinati da forze soprannaturali che possiamo dominare attraverso il contatto con gli spiriti e alcune pratiche rituali. Ancora: è profondamente diverso ritenere come valore guida la libertà del soggetto, pronto a morire pur di manifestare il proprio pensiero anche contro un sistema sociale ostile, oppure percepire sé stessi anzitutto come membri di una collettività da cui si è ricevuta la vita e senza la quale non avrebbe alcun senso vivere.

Integrazione o stratificazione
Raggiungere un livello di comunicazione profonda su queste differenze culturali è molto difficile: la vita comune, la condivisione della preghiera e i momenti di confronto sono un valido aiuto, ma di per sé non sono sufficienti per un’integrazione degli strati più profondi. D’altra parte, anche all’interno della stessa persona è frequente notare come non si sia realizzata una buona integrazione tra le esperienze fondative della cultura di origine e quelle vissute in fasi successive della propria esistenza, magari abitando in un altro continente. Capita spesso, infatti, che le nuove acquisizioni avvengano prevalentemente sul piano cognitivo, senza attivare un reale confronto con la struttura affettiva già precedentemente formata. Il risultato è che l’identità della persona è come composta a strati, talvolta piuttosto separati l’uno dall’altro. Generalmente la persona si comporta secondo le modalità tipiche del luogo in cui si trova ma, di fronte ad eventi improvvisi o a situazioni di crisi, riemerge il suo sentire profondo, legato a ben altre convinzioni e modalità di approccio. 
Talvolta questa mancata integrazione nell’identità di chi appartiene a più culture è fonte di disagio e si manifesta con sintomi di vario tipo. Altre volte rimane silente fin quando un evento scatenante non la fa esplodere in tutto il suo vigore: capita così che il prete, dopo aver celebrato la messa, si rivolga a uno stregone per propiziare la guarigione di un famigliare; o la suora di voti perpetui (che da anni vive e ha un lavoro professionale in Europa), durante una visita alla sua famiglia di origine, decida di rimanere lì, lasciando – immediatamente e senza alcun preavviso – la propria congregazione.

Formazione iniziale e successiva
Alcune congregazioni religiose hanno fatto la scelta di creare comunità interculturali fin dalla formazione iniziale, per un duplice motivo. In primo luogo, non vogliono rinunciare all’ideale di creare comunità nelle quali la fraternità sia reale, un valore non solo proclamato ma vissuto per quanto possibile a tutti i livelli. Consapevoli di quanto sia difficile maturare una sincera empatia tra persone di culture diverse, si preferisce fin da subito dichiarare la propria scelta a favore dell’interculturalità e iniziare concretamente a sperimentarla.
In secondo luogo, le comunità interculturali sono molto stimolanti a causa delle notevoli differenze tra le persone che le compongono. Le numerose situazioni di confronto – e talvolta di scontro – che vengono a crearsi costituiscono occasioni preziose perché i singoli possano allargare i propri orizzonti ed imparare ad adattarsi, a patto che siano accompagnati regolarmente da formatori competenti. Al tempo stesso, vedere una persona che, pur aiutata a rielaborare, si fissa sulle proprie posizioni in modo rigido, fa suonare un campanello di allarme circa la sua disponibilità e capacità di maturare in senso vocazionale.
Per quanto ben fatta, la formazione iniziale non può esaurire il cammino di maturazione della propria identità come figli di Dio e discepoli di Cristo. Ci sono frangenti della vita nei quali è necessario ritornare alle proprie origini, anche culturali, per permettere un nuovo dialogo tra i vissuti profondi e le istanze di Vangelo che abbiamo rinvenuto nelle esperienze degli ultimi anni. Questa esigenza di sintesi e integrazione spesso viene avvertita con maggiore intensità nell’età adulta e non può essere anticipata forzosamente per inserirla nella formazione iniziale.

Pregiudizi e reciprocità 
Spesso non siamo consapevoli della quantità di pregiudizi culturali che abitano i nostri modi di pensare, sentire e valutare. Se prestiamo attenzione, già il linguaggio ne svela alcuni: ad es. dividere le persone in italiani e stranieri senza mai chiederci: «Chi è straniero rispetto a chi?»; oppure parlare di africani, incuranti del fatto che le nazioni africane sono numerose e diverse fra loro. Spesso il linguaggio sottintende una divisione tra “noi” e “loro”, senza che sia chiaro quali caratteristiche consentono di appartenere a “noi”, così che chi non le possiede viene percepito come estraneo.
È importante poter parlare di questi argomenti, prendendosi il tempo necessario per ascoltare, capire e farsi capire, superando il timore che qualcuno si offenda. L’esperienza insegna che, quando persone di culture diverse accettano la sfida di condividere realmente la vita e le scelte comuni, facilmente entrano in conflitto su qualche aspetto, ma nel tempo formano legami importanti e nasce un’appartenenza comune intorno ad un ideale condiviso. Questo tipo di esperienza diventa il miglior antidoto ai pregiudizi culturali che tutti ci portiamo dentro e crea una reazione spontanea quando, in altri ambienti, si sentono persone della propria cultura parlare male di altre a motivo dei loro pregiudizi.
È opportuno sottolineare che una delle maggiori resistenze che ostacola la creazione di una vera comunità interculturale ruota intorno al tema della reciprocità. Nella vita religiosa spesso si enfatizza il movimento del donare e prendersi cura dell’altro, rischiando tuttavia di lasciare in ombra quello complementare di saper ricevere: è necessario essere umili per riconoscere di aver bisogno e chiedere aiuto, così come è indispensabile essere aperti ad un bene che mi supera per poter gioire di quanto di buono e bello stanno facendo altri. Non è raro che la difficoltà nel rapporto interculturale sia espressione di un blocco più profondo, che riguarda la capacità di ricevere, di lasciare che altri si prendano cura di me e contribuiscano alla mia crescita.

Inculturazione e colonialismo 
Nella vita fraterna ogni persona è chiamata a dare il proprio apporto per il bene di tutti, non soltanto in termini di servizi pratici e competenze, ma anche e soprattutto come condivisione della propria sensibilità spirituale. Questa è legata alla propria storia individuale, alle esperienze vissute fin dall’infanzia e anche alla cultura di origine. Su questo aspetto è necessario fare chiarezza e superare una mentalità che sottilmente rimane di stampo coloniale: ad es. il fatto che una congregazione religiosa sia nata in Italia o che le prime opere siano state pensate e realizzate in un territorio specifico non significa che le altre culture debbano essere considerate inferiori o deficitarie. Al contrario, è necessario che ogni persona recuperi uno sguardo positivo sulla propria cultura di origine, valorizzando il contributo che essa può dare per una migliore comprensione del Vangelo. Nel caso delle congregazioni religiose, ciò significa anche ripensare il carisma, cercando di essenzializzare le intuizioni di fondo che lo costituiscono, liberandolo da quelle forme che ne hanno determinato l’attuazione in un dato territorio e momento storico, ma che possono e debbono mutare a seconda del contesto.
Abbracciare la prospettiva di inculturazione del Vangelo e rinunciare quindi a impiantare un modello predefinito in ogni territorio sono scelte che aprono ad esperienze inedite, e proprio per questo suscitano notevoli resistenze. Infatti, quando si arriva a superare la svalutazione di culture diverse dalla propria e ad avere fiducia che è possibile con il tempo arrivare a capirsi, si è fatto tanto, ma si è ancora a metà della strada. Il punto critico è accettare che anche la propria cultura di origine è portatrice di aspetti che richiedono di essere purificati nel confronto con il Vangelo, e proprio coloro che provengono da culture diverse sono capaci di riconoscerli e portarli alla consapevolezza. Se dunque realizziamo un vero dialogo interculturale, questo ci condurrà a costruire insieme nuovi modelli pratici e teorici che necessariamente saranno meticci. E qui diventa alto il timore di smarrire sé stessi o di perdere aspetti importanti del Vangelo: è un rischio inevitabile ma che può essere affrontato con la fiducia che, camminando insieme, lo Spirito aiuterà a discernere ciò che viene da Dio. In altre parole: quando è portata fino in fondo, la vita fraterna interculturale va a modificare sia le strutture istituzionali sia l’identità di tutti i partecipanti, aprendo domande di significato sui temi fondamentali dell’esistenza e provocando ad elaborare nuove risposte tanto sul piano affettivo che su quello cognitivo. Siamo disponibili a questo cammino?