Gerarchicismo
Editoriale
Tredimensioni XXI (2024) 120-124
Non vogliamo bruciare sul tempo chi da poco ha coniato un neologismo carico di sostanza: sarebbe come rubare la moto a qualcuno che ha speso i soldi per comprarla, l’ha lucidata e magari ne ha anche riempito il serbatoio di carburante. Al momento, quello che qui faremo – in attesa che l’ideatore di questa parola approfondisca il tema con una pubblicazione ad hoc – non sarà altro che accendere un riflettore sulla parola Hierarchicalism[1], per riassumere le prospettive del suo autore e di coloro che ne hanno ispirato la riflessione, e poi (nello stile di questa rivista) aprire interrogativi sulla formazione.
James Keenan è un gesuita e teologo morale newyorkese, oggi docente al Boston College, dove occupa altri ruoli di rilievo. Dire Boston, ovviamente, è far affiorare ricordi in cui si intrecciano vittime, abusatori e connivenze della gerarchia. E forse è facile ricondurre il termine Hierarchicalism alla storia personale di Keenan, uno dei firmatari della petizione di cinquantotto presbiteri che chiesero le dimissioni del Cardinal Bernard Law, mentre montava lo scandalo degli abusi nella diocesi di Boston.
Keenan (un po’ come si è fatto con il Covid) struttura la storia statunitense relativa agli abusi da parte del clero in ondate successive.
La prima di queste risale al 1985, con la pubblicazione di un documento a firma di due sacerdoti e uno scrittore, dove si chiedeva che la Conferenza episcopale degli Stati Uniti si facesse carico dei casi di abuso, difendendo le vittime e collaborando con la giustizia civile. Seguì un ventennio di orrore crescente, con segnali diffusi (come nel caso della diocesi di Dallas, costretta ad un esoso risarcimento), fino al 2002 quando il Boston Globe[2] pubblicò la sua inchiesta, culminata nelle dimissioni del Cardinale Arcivescovo della diocesi.
La seconda ondata ha consentito di mettere a fuoco quel clericalismo più volte denunciato da papa Francesco: i laici, purtroppo, hanno modo di incontrare tale distorsione del ministero presbiterale, caratterizzata dal possedere posizioni privilegiate e da un’autoreferenzialità che zittisce sistematicamente la voce del laicato. Il paradosso è che esso rappresenta larga parte dei membri della Chiesa, e proprio i laici sono portatori di conoscenze e competenze non superficiali, sia in campo “profano” che in ambito teologico (si pensi a tutti coloro che vantano studi teologici o canonici o in scienze religiose…). Il clericalismo si concretizza nel sentirsi sopra un piedistallo, con l’implicita attesa, dunque, di non essere mai messi in discussione rispetto alla propria parola, ai propri comportamenti e al proprio stile di vita[3]. Tale fenomeno non è esclusivamente appannaggio della Chiesa cattolica, ma si riscontra anche in altre confessioni cristiane e in qualsiasi cerchia (di carattere intellettuale, professionale o economico) ristretta di gestori del potere: condizione necessaria perché possa realizzarsi. Al fondo di questo modo di agire – basato sul sentirsi in qualche modo speciali e al di sopra degli altri – non vi sarebbe la fame di potere, quanto invece una sorta di vanità, anche perché oggi un prete non gode più del prestigio pubblico, e la stessa casta non riesce a difendere sé stessa come accadeva in passato. I preti che sono stati privati dell’esercizio del ministero sono lì a testimoniare proprio lo sgretolamento della forza di questa ormai sbiadita élite.
Il problema è che nel 2018 è iniziata una terza ondata, caratterizzata dal coinvolgimento diretto degli stessi vescovi (non solo d’oltreoceano). La particolarità di questa nuova forma si sostanzia nel passaggio alla gerarchia, provocando dunque uno shift dal clericalismo al gerarchicismo. Già nel 1993 Robert Landy[4] affermava che l’Io aveva ceduto il passo a ruoli sociali – agiti più o meno bene nel contesto – e che in certe culture le persone accumulano ruoli senza avere un vero e proprio centro. Nella fatica a definire la propria identità, un'immagine vicaria (e fallace) può essere quella del ruolo occupato. Il carrierismo, pertanto, non sarebbe meramente una ricerca insaziabile di potere, ma una vera e propria risposta psicologica ad un bisogno di fondo, come se un ruolo di prestigio restituisse maggior valore alla persona stessa. Il fare carriera avrebbe dunque una forza attrattiva irresistibile, un fascino seduttivo fatale per l’interessato.
Fin qui niente di nuovo: già dalle battute iniziali del suo ministero, papa Francesco ha messo in guardia i sacerdoti evidenziando il rischio che si facciano prendere dalla smania di cariche “altolocate”. E, coerentemente, ha interrotto il passaggio dei vescovi da una diocesi ad un’altra (presumibilmente più prestigiosa), e la nomina di pastori a cardinali di sedi episcopali rinomate.
Quell’impunità che è venuta meno per i presbiteri seguaci del clericalismo, sembra essere invece sopravvissuta nel gerarchicismo; lo si è rimproverato anche a papa Francesco, in Cile, quando aveva condannato gli abusi dei preti e poi celebrato accanto ad un vescovo molto discusso. Lo aveva pure apertamente difeso, salvo poi essere costretto ad inviare il segretario aggiunto della Congregazione della Dottrina della Fede per approfondire il caso, conclusosi con le dimissioni del vescovo di Isorno, Juan Barros. Tutto ciò dimostra che il gerarchicismo funziona, in quanto è una vera e propria cultura annidata nella Chiesa cattolica. Il suo punto caratterizzante è legato ad una sorta di formazione ad hoc per i futuri vescovi. Spesso essi non studiano nelle loro diocesi di appartenenza o nei seminari regionali, ma sono mandati a Roma, al fine di imparare l’italiano. Lì vivono in collegi, dove iniziano ad essere in contatto con vescovi e membri della Curia romana, con i quali si costruisce una crescente confidenza; sono poi attesi nelle loro diocesi e, in non pochi casi, trattati in un modo differente rispetto agli altri presbiteri, quasi fossero membri di un club particolare. Come nel caso del clericalismo, si può rintracciare nel gerarchicismo una vera e propria cultura.
Secondo Keenan, la terza ondata è segnata proprio da una nuova dimensione, caratterizzata da una rete di relazioni dove i membri della gerarchia coinvolti nell’abuso si proteggono tra loro, creando uno scudo di impunità ben superiore a quello del clericalismo. Puntare l’attenzione sul gerarchicismo, però, non deve costituire un alibi per smettere di occuparsi del clericalismo credendo che quest’ultimo non faccia più problema. Non è che uno sia un peccato veniale e l’altro un peccato grave: il punto serio è che il gerarchicismo è più forte e difeso, più robusto e quindi maggiormente pericoloso.
Keenan afferma che il gerarchicismo precede e genera il clericalismo. Gli autori che si occupano di quest’ultimo tendono a ricondurre la sua genesi nei seminari stessi, e dunque si concentrano sulla loro riforma. Per il teologo statunitense, tuttavia, così sfugge la vera paternità del clericalismo, che andrebbe invece individuata nel modo in cui i vescovi (o in generale i superiori) forgiano il loro clero. Inoltre, si tratta di un vizio che fa presto ad infettare anche il laicato, portandolo a rapportarsi al clero in modo complementare.
Va detto: oggi Bernad Law non verrebbe più spostato da Boston a fare l’arciprete di una basilica romana. Allora, invece, egli fu inserito in molte Congregazioni, incluse quelle che si occupavano della nomina dei nuovi vescovi e della vita del clero (con il fondato sospetto che abbia approfittato della posizione per perseguire coloro che lo avevano denunciato). La Chiesa ha tentato di dare una risposta sistemica al problema, stabilendo protocolli che vincolano la responsabilità del vescovo in caso di denunce e togliendo l’impunità (si pensi, ad es., al processo contro il Cardinal Angelo Becciu).
La reale imputazione di responsabilità in ambito ecclesiale diventerà davvero tale solo se il “superiore” potrà essere giudicato anche dall’inferiore. Occorre però la consapevolezza che secoli di storia hanno dato alla Chiesa una forma che non potrà essere modificata rapidamente, e che richiederebbe adeguamenti canonici significativi.
La cultura legata al gerarchicismo si opporrà ad ogni tentativo di riforma, sia in modo attivo (cf Mons. Carlo Viganò) che con una resistenza passiva (vedi la recezione di Amoris Laetitia o la reazione alla benedizione delle coppie omosessuali).
Keenan solleva in noi una questione non tanto linguistica quanto sostanziale: come la Chiesa cattolica forma i propri leader?
Se è vero che già Henri Nouwen parlava di leadership a proposito dei presbiteri[5], il gesuita statunitense punta l’occhio di bue verso la gerarchia della Chiesa: come si diventa vescovi? La formazione al presbiterato è sufficiente per poter essere un buon vescovo?
James Keenan è un gesuita e teologo morale newyorkese, oggi docente al Boston College, dove occupa altri ruoli di rilievo. Dire Boston, ovviamente, è far affiorare ricordi in cui si intrecciano vittime, abusatori e connivenze della gerarchia. E forse è facile ricondurre il termine Hierarchicalism alla storia personale di Keenan, uno dei firmatari della petizione di cinquantotto presbiteri che chiesero le dimissioni del Cardinal Bernard Law, mentre montava lo scandalo degli abusi nella diocesi di Boston.
Keenan (un po’ come si è fatto con il Covid) struttura la storia statunitense relativa agli abusi da parte del clero in ondate successive.
La prima di queste risale al 1985, con la pubblicazione di un documento a firma di due sacerdoti e uno scrittore, dove si chiedeva che la Conferenza episcopale degli Stati Uniti si facesse carico dei casi di abuso, difendendo le vittime e collaborando con la giustizia civile. Seguì un ventennio di orrore crescente, con segnali diffusi (come nel caso della diocesi di Dallas, costretta ad un esoso risarcimento), fino al 2002 quando il Boston Globe[2] pubblicò la sua inchiesta, culminata nelle dimissioni del Cardinale Arcivescovo della diocesi.
La seconda ondata ha consentito di mettere a fuoco quel clericalismo più volte denunciato da papa Francesco: i laici, purtroppo, hanno modo di incontrare tale distorsione del ministero presbiterale, caratterizzata dal possedere posizioni privilegiate e da un’autoreferenzialità che zittisce sistematicamente la voce del laicato. Il paradosso è che esso rappresenta larga parte dei membri della Chiesa, e proprio i laici sono portatori di conoscenze e competenze non superficiali, sia in campo “profano” che in ambito teologico (si pensi a tutti coloro che vantano studi teologici o canonici o in scienze religiose…). Il clericalismo si concretizza nel sentirsi sopra un piedistallo, con l’implicita attesa, dunque, di non essere mai messi in discussione rispetto alla propria parola, ai propri comportamenti e al proprio stile di vita[3]. Tale fenomeno non è esclusivamente appannaggio della Chiesa cattolica, ma si riscontra anche in altre confessioni cristiane e in qualsiasi cerchia (di carattere intellettuale, professionale o economico) ristretta di gestori del potere: condizione necessaria perché possa realizzarsi. Al fondo di questo modo di agire – basato sul sentirsi in qualche modo speciali e al di sopra degli altri – non vi sarebbe la fame di potere, quanto invece una sorta di vanità, anche perché oggi un prete non gode più del prestigio pubblico, e la stessa casta non riesce a difendere sé stessa come accadeva in passato. I preti che sono stati privati dell’esercizio del ministero sono lì a testimoniare proprio lo sgretolamento della forza di questa ormai sbiadita élite.
Il problema è che nel 2018 è iniziata una terza ondata, caratterizzata dal coinvolgimento diretto degli stessi vescovi (non solo d’oltreoceano). La particolarità di questa nuova forma si sostanzia nel passaggio alla gerarchia, provocando dunque uno shift dal clericalismo al gerarchicismo. Già nel 1993 Robert Landy[4] affermava che l’Io aveva ceduto il passo a ruoli sociali – agiti più o meno bene nel contesto – e che in certe culture le persone accumulano ruoli senza avere un vero e proprio centro. Nella fatica a definire la propria identità, un'immagine vicaria (e fallace) può essere quella del ruolo occupato. Il carrierismo, pertanto, non sarebbe meramente una ricerca insaziabile di potere, ma una vera e propria risposta psicologica ad un bisogno di fondo, come se un ruolo di prestigio restituisse maggior valore alla persona stessa. Il fare carriera avrebbe dunque una forza attrattiva irresistibile, un fascino seduttivo fatale per l’interessato.
Fin qui niente di nuovo: già dalle battute iniziali del suo ministero, papa Francesco ha messo in guardia i sacerdoti evidenziando il rischio che si facciano prendere dalla smania di cariche “altolocate”. E, coerentemente, ha interrotto il passaggio dei vescovi da una diocesi ad un’altra (presumibilmente più prestigiosa), e la nomina di pastori a cardinali di sedi episcopali rinomate.
Quell’impunità che è venuta meno per i presbiteri seguaci del clericalismo, sembra essere invece sopravvissuta nel gerarchicismo; lo si è rimproverato anche a papa Francesco, in Cile, quando aveva condannato gli abusi dei preti e poi celebrato accanto ad un vescovo molto discusso. Lo aveva pure apertamente difeso, salvo poi essere costretto ad inviare il segretario aggiunto della Congregazione della Dottrina della Fede per approfondire il caso, conclusosi con le dimissioni del vescovo di Isorno, Juan Barros. Tutto ciò dimostra che il gerarchicismo funziona, in quanto è una vera e propria cultura annidata nella Chiesa cattolica. Il suo punto caratterizzante è legato ad una sorta di formazione ad hoc per i futuri vescovi. Spesso essi non studiano nelle loro diocesi di appartenenza o nei seminari regionali, ma sono mandati a Roma, al fine di imparare l’italiano. Lì vivono in collegi, dove iniziano ad essere in contatto con vescovi e membri della Curia romana, con i quali si costruisce una crescente confidenza; sono poi attesi nelle loro diocesi e, in non pochi casi, trattati in un modo differente rispetto agli altri presbiteri, quasi fossero membri di un club particolare. Come nel caso del clericalismo, si può rintracciare nel gerarchicismo una vera e propria cultura.
Secondo Keenan, la terza ondata è segnata proprio da una nuova dimensione, caratterizzata da una rete di relazioni dove i membri della gerarchia coinvolti nell’abuso si proteggono tra loro, creando uno scudo di impunità ben superiore a quello del clericalismo. Puntare l’attenzione sul gerarchicismo, però, non deve costituire un alibi per smettere di occuparsi del clericalismo credendo che quest’ultimo non faccia più problema. Non è che uno sia un peccato veniale e l’altro un peccato grave: il punto serio è che il gerarchicismo è più forte e difeso, più robusto e quindi maggiormente pericoloso.
Keenan afferma che il gerarchicismo precede e genera il clericalismo. Gli autori che si occupano di quest’ultimo tendono a ricondurre la sua genesi nei seminari stessi, e dunque si concentrano sulla loro riforma. Per il teologo statunitense, tuttavia, così sfugge la vera paternità del clericalismo, che andrebbe invece individuata nel modo in cui i vescovi (o in generale i superiori) forgiano il loro clero. Inoltre, si tratta di un vizio che fa presto ad infettare anche il laicato, portandolo a rapportarsi al clero in modo complementare.
Va detto: oggi Bernad Law non verrebbe più spostato da Boston a fare l’arciprete di una basilica romana. Allora, invece, egli fu inserito in molte Congregazioni, incluse quelle che si occupavano della nomina dei nuovi vescovi e della vita del clero (con il fondato sospetto che abbia approfittato della posizione per perseguire coloro che lo avevano denunciato). La Chiesa ha tentato di dare una risposta sistemica al problema, stabilendo protocolli che vincolano la responsabilità del vescovo in caso di denunce e togliendo l’impunità (si pensi, ad es., al processo contro il Cardinal Angelo Becciu).
La reale imputazione di responsabilità in ambito ecclesiale diventerà davvero tale solo se il “superiore” potrà essere giudicato anche dall’inferiore. Occorre però la consapevolezza che secoli di storia hanno dato alla Chiesa una forma che non potrà essere modificata rapidamente, e che richiederebbe adeguamenti canonici significativi.
La cultura legata al gerarchicismo si opporrà ad ogni tentativo di riforma, sia in modo attivo (cf Mons. Carlo Viganò) che con una resistenza passiva (vedi la recezione di Amoris Laetitia o la reazione alla benedizione delle coppie omosessuali).
Keenan solleva in noi una questione non tanto linguistica quanto sostanziale: come la Chiesa cattolica forma i propri leader?
Se è vero che già Henri Nouwen parlava di leadership a proposito dei presbiteri[5], il gesuita statunitense punta l’occhio di bue verso la gerarchia della Chiesa: come si diventa vescovi? La formazione al presbiterato è sufficiente per poter essere un buon vescovo?
[1] Cf J. F. Keenan, Vulnerability and Hierarchicalism, in «Melita Theologica - Journal of the Faculty of Theology University of Malta», 68/2 (2018), pp. 129-142; Id., Hierarchicalism, in «Theological Studies», 83/1 (2022), pp. 84-108; Id., Integrare la vulnerabilità per combattere gli abusi, in «Aggiornamenti Sociali», agosto-settembre 2019, pp. 562-572.
[2] Cf lo storico film del 2015 Il caso Spotlight, diretto da Tom McCarthy.
[3] Cf P. Daly, Tackle clericalism first when attempting priesthood reform, in «National Catholic Reporter», 13 agosto 2019, https://www.ncronline.org/news/opinion/priestly-diary/tackle-clericalism-first-when-attempting-priesthood-reform ; anche T. G. Plante, Clericalism Contributes to Religious, Spiritual, and Behavioral Struggles among Catholic Priests, in «Religions», 11/5 (2020).
[4] Cf R. J. Landy, Persona and performance. The meaning of role in drama, therapy and everyday life, Guilford, New York NY 1993.
[5] Cf H. Nouwen, Nel nome di Gesù. Riflessioni sulla leadership cristiana, Queriniana, Brescia 2001.
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